VISIONI

Discesa nel mondo degli inferi per celebrare la vita nuova

Una festa dionisiaca come nella «danza» di Boes e Merdules in Barbagia
SILVIA VEROLIITALIA

Nel 2020 quaresima e quarantena erano cominciate insieme, il carnevale era arrivato e scappato veloce come un ladro, tra le polemiche: carri sì, carri no, e le feste? Le piazze?. Nel 2021 non se ne fa niente e tutti se ne sono fatti una ragione, più o meno, su tutta la penisola isole comprese; la mappa d’Italia mostra una costellazione molto popolosa di Carnevali: Ivrea, Santhià, Venezia, Viareggio, Cento, Fano, Putignano, Acireale, Tempio Pausania.. Tra i più famosi, anche se poi ogni regione ne vanta di meno noti ma ognuno con primati di antichità e motivi di suggestione.
FESTE E SFILATE, come gli studenti una volta, per quest’anno riparano a settembre, o nell’enclave di qualche smagliatura d’estate fatto che suona un po’ strano. Coriandoli e gettiti non sono nati alla luce smagliante delle ferie d’agosto, richiedono fondali plumbei per stagliarsi meglio. Le feste delle maschere, del ribaltamento, dell’esaltazione della vitalità dirompono da che mondo è mondo in un passaggio di stagione: dal culmine di quella fredda verso la primavera; questo vale sia che le odierne celebrazioni le si ricolleghi a riti romani come i Saturnali (che segnavano la fine dell’anno, del sole e ne reclamavano il ritorno), i Feralia o i Paternalia (sempre da calendario romano, in febbraio), sia che le si faccia risalire alle greche Antesterie, tra febbraio e marzo. Queste ultime consistevano in un’articolata tre giorni di celebrazioni in onore di Dioniso, inaugurate dall’apertura delle giare col vino della vendemmia autunnale.
Io sento già primavera che si avvicina coi suoi fiori: versatemi presto, una tazza di vino dolcissimo, lo diceva, non a caso il poeta greco Alceo brindando al rifiorire del mondo.
Il rito del Carnevale, pur nelle mille varianti nazionali, ha elementi che ricorrono nello spazio e nel tempo: la libagione, la sovversione, la burla, la realizzazione del piacere, la sfrenatezza dei costumi e qualcosa di indissolubilmente legato agli inferi, allo sconfinamento tra mondi.
Come pure il Natale, e non solo la vigilia di Ognissanti, è momento di avvicinamento tra dimensioni terrena e ultra, in cui si ricevono visite di fantasmi (si veda alla voce Dickens Charles Canto di Natale).
La vita nuova, la nuova stagione sono quelle che si avvertono in filigrana mescolate all’odore di zucchero, di make up e di ultima brina nei pomeriggi di carnevale, quando alzando gli occhi dalle stelle filanti al cielo ci si accorge che guarda, è ancora chiaro, come si sono allungate le giornate. Eppure le tenebre sono ancora lì.
LE MASCHERE sul volto, che oggi son scudo a virus e morte, nascono come maschere funerarie: venivano usate nelle Antesterie, nel secondo giorno di celebrazione dedicati ai defunti, e in un altro rito romano, quello del Carrus Navalis, da cui qualcuno deriverebbe anche il nome del Carnevale, notoriamente invece connesso al carnem levare cristiano. L’allestimento del Carrus avveniva all’interno della festa del Navigium Isidis, di derivazione egizia, prossima all'equinozio di primavera e legata alla vicenda di Iside e del suo peregrinare alla ricerca delle parti smembrate del cadavere del suo Osiride. La celebrazione prevedeva tra le altre cose l'atto di coprirsi il volto con maschere raffiguranti le fattezze dei morti.
Non si sfugge da Eros e Thanatos, dall'esplosione dei sensi nella consapevolezza della nostra scadenza breve; Venere e Proserpina si intrecciano nelle origini del carnevale fanese (riscoperte da Dario Fo quando ne fu direttore artistico), dove ancora si brucia in piazza un pupone /Dioniso bambino.
Come su Eyes Wide Shut la maschera veneziana, retaggio dell’orgia, lasciata su un cuscino è confessione e disvelamento degli esausti desideri celati dietro doppi sogni. E anche il Trionfo di Bacco e Arianna, firmato da Lorenzo il Magnifico due anni prima della scoperta dell’America, era canto carnascialesco.
DEL RESTO Arlecchino, emblema del Carnevale, viene dritto dagli inferi che si porta dentro il nome di origine tedesca Hölle König (re dell’inferno), traslato in Helleking e poi in Harlequin. Anche Hellboy, diffuso da fumetti e film (memorabile nell'interpretazione di Ron Pearlman, il Salvatore del Nome della Rosa), discende da lui. Le sue corna (sublimate nel cappello della maschera bergamasca), svettano, oltre che in testa a Jack Angeli, su quella delle maschere sarde, dei Boes della tradizione barbaricina, che, adorni pelli di pecora e campanacci, si misurano in un tripudio dionisiaco con i Merdules. Convivono nel nuorese coi Mamuthones, che indossano una maschera modellata sui loro volti, come i calchi funerari, mentre ad Oristano le atmosfere ctonie lasciano il posto all’assalto al cielo: quello sferrato dalla Sartiglia; si tratta di un rito di rigenerazione agraria, passaggio di stagione, giostra medievale, dove vince chi, con una spada, infilza al galoppo più stelle che può. Sortijia viene latino sorticula, l'anello, e ha in sé la sorte. La buona stella, che aiuta gli audaci mascherati che corrono a prendersela.

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