CULTURA

La figlia eretica e il desiderio colmo

«Demi-monde», l’esordio poetico di Silvia Righi per le edizioni Nem
SARA DE SIMONEITALIA

Chiunque scriva un libro sul desiderio, scrive un libro sulla solitudine. Silvia Righi, classe 1995, lo fa con un esordio folgorante, il libro di poesie Demi-monde, uscito per Nem editore (pp. 91, euro 13).
In uno dei primi componimenti della raccolta, la poeta avverte: «Questo è un teatro dei desideri». Entrare in Demi-monde significa entrare nella camera segreta delle nostre pulsioni, fantasie, proiezioni e vederle manifestarsi, significa essere primi attori e insieme testimoni di accoppiamenti e separazioni, proprio come accade nei sogni, dove ci vediamo agire come fossimo dentro e fuori di noi.
Demi-monde, infatti, è un «inframondo», uno spazio sospeso tra realtà e visione, tra coscienza e allucinazione, il luogo del nostro protagonismo e insieme della nostra esistenza vicaria. Se l’intimità della camera pare autorizzare fantasie indicibili, Righi ci mette in guardia: la camera è anche un teatro, un teatro per noi stessi, un gioco di rappresentazioni, che non chiedono necessariamente di inverarsi.
Non sono forse fantasmi, le fantasie? E non è il fatto che spesso restino tali, a rendere ricco e febbrile il nostro traffico interno? Ed è più vivo chi si mette in ascolto e nutre queste fantasie, o chi rapido le mette in atto, accorciando il tempo del pensiero?
LEGGERE I VERSI di Silvia Righi significa entrare in contatto con la tensione sfinente del desiderio. La sua lingua è in continua trazione: riconosciamo quella fatica, e insieme quella vitalità, riconosciamo la spinta e la resistenza, la frenata e lo sbocco. Riconosciamo l’orbita ellittica e ricorsiva dell’immoderata cogitatio – quel «pensiero smodato» di cui parlava Andrea Cappellano, autore del celebre trattato medievale De amore – attorno alle immagini del volto e del corpo di chi desideriamo.
Chi desidera pensa – dal latino «pensare», soppesare – continuamente, si esercita senza sosta nella perdita e nell’acquisto: il volto desiderato appare e scompare, un gesto ricordato e voluto emerge, si dissolve, riaffiora. Ogni vuoto è vuoto per essere riempito dal pensiero dell’altro, dell’altra.
Si tratta di un processo simile a quello dell’«imagination combleuse», descritto da Simone Weil in uno dei suoi Quaderni: per la filosofa, l’immaginazione è una qualità ma anche un pericolo, a causa della sua intrinseca attitudine all’accumulo. L’immaginazione «comble», ovvero «colma», riempie qualsiasi buco, qualsiasi crepa. In questo senso, l’immaginazione del desiderante è immaginazione all’ennesima potenza: non c’è fessura che non venga occupata dall’immagine del desiderato.
«Il mio volto nel tuo occhio, il tuo nel mio/ divento analfabeta del mio sesso/ le assenze, tutte, hanno il tuo nome», scrive Silvia Righi. Tutte le assenze portano il nome della creatura desiderata, e l’incontro con lei, con il suo corpo – reale o immaginato – smemora, confonde, dice l’insussistenza di qualsiasi trincea identitaria.
Infatti, nel contatto – o all’idea del contatto – con il corpo dell’altro, il desiderante disimpara il proprio sesso: non c’è alcuna posizione che abbia senso difendere, nessuno schema a cui attenersi, nessuna recita dei gesti d’amore da riconoscere e, quindi, imitare.
«TU BALLI/ tu non riconosci la malacarne/ ma tocchi un petalo, una radice/ o una muta di serpente e la natura/ si ripete./ E il tuo seno è così nudo./ Quanti uomini spogliandoti/ hanno annodato i tuoi capelli, e poi/ stretto forte/ mentre io mangio ostriche»: il godimento passa per la ripetizione di gesti antichi eppure fuori da ogni paradigma. Non sono i gesti del possesso, infatti, a nutrire, ma la deviazione, la metafora, la consumazione creativa. Quella in cui il corpo non collassa sul significante – lo «sbattere di carni» – ma allude e germina infiniti significati.
«Il possesso è la tentazione. I maschi/ si stordiscono Il dominio lo hanno ereditato/ fa male»: se la storia del dominio fa male a chi la subisce, ma anche a chi la eredita, se «il padre di suo padre/ latrava alle ombre dei tigli/ ai Minotauri occhieggianti/ dietro gli angoli delle strade», Silvia Righi sceglie un percorso diverso: «Non avrà il mio volto lo specchio/ né il padre suo. La figlia eretica,/ divisa, è l’unica/ erede del desiderio».
La figlia eretica non ha nessun «uomo-toro» a indicarle la via, lo specchio deformante del possesso non la cattura: sono altre le sue ossessioni, altri i suoi desideri. Ai labirinti ossificati di una storia che non le appartiene, la figlia eretica preferisce il Demi-monde, laboratorio sperimentale di identità possibili e impossibili, teatro di combinazioni, di favole, di miti, di «mezze asino e mezze femmina/ che sotto il cielo di Crotone, tra gli sterpi/ graffia-gambe,/ imitano del maschio/ la voce e il pomo d’Adamo»: il desiderio è anche questo, recita, messinscena, rito semprevivo perché carico di mistero, di improbabile, di impossibile.
In un momento in cui la presunta liberazione dal giogo delle identità (sessuali e di genere) codificate, pare cadere ed esitare continuamente in nuove codificazioni, nuovi nomi, nuove etichette, nuovi finali di parola, nuovi soggetti neutri e/o onnipotenti – illusoriamente creduti trasgressivi – leggere Silvia Righi dà ossigeno e linfa.
SE TRASGREDIRE, dal latino «transgredi», significa «camminare oltre», uscire pericolosamente dal seminato, Silvia Righi lo fa: la figlia eretica sa che l’incontro con chi si desidera non dipende davvero né dal genere né dal sesso, che il modo migliore per tradire le norme è non credere nelle norme. La figlia eretica è «l’unica erede del desiderio» perché non lo classifica né in categorie né in anti-categorie, e così ne protegge il mistero.
«Perché esista la creatura, è un segreto», scrive Righi nell’ultimo componimento di Demi-monde, ed è proprio questo il punto: la poesia dice il segreto mantenendolo. Qualcosa di simile vale per il desiderio, che può essere provato e detto lasciandone intatta l’incomprensibilità.
Un desiderio resta vivo quando si accetta che esaudirlo non sarà mai abbastanza, che, proprio come la luna, ogni desiderio vivo ha una faccia nascosta, invisibile, e per ciò stesso continuamente immaginabile.
È la faccia con cui ha più spesso a che fare la nostra solitudine. Silvia Righi lo sa: «La cacciatrice viene cacciata/ prima o dopo. Lei lascia/ che i peli ammorbidiscano i suoi femori/ come nidi./ Ci si ripiega di notte/ quando l’insonnia la bracca/ e la spoglia una voce d’altare/ «sei sola, bambina, sei sola».
Tutti abbiamo ascoltato questa voce almeno una volta, nella notte, nel buio, nella resa. Nel buco lasciato da un desiderio inappagato, o solo in parte esaudito. Tutti vi abbiamo opposto nuove immaginazioni, nuovi desideri, nuovi tentativi d’intero. Senza chiederci se per quella crepa passasse la vita, oltre che lo spavento. Se quella fessura fosse non solo e non tanto il segno dell’assenza dell’altro – della sua mancata adesione – quanto della nostra presenza.
«MI HAI STROFINATA come fossi/ una pietra focaia,/ cercavi il miracolo,/ la femmina che non delude/ ed ecco un fuoco bianco/ mi ha resa latitante./ Così bugiarda nel rifiuto/ ho aspettato/ vieni a cercarmi/ ma tu sei uscita dal gioco./ Il bosco intorno si richiude./ Qui, al limite boreale del mondo/ dove ballano gli spettri dalle lunghe falangi/ crudeli ruba-memoria/ io priva di te/ mi separo».
Quante volte avremmo potuto e potremo ripetere questa poesia come se fosse nostra. Quanti incontri mancati, miracoli non avvenuti, delusioni e addii ci hanno lasciato soli, al limite boreale del mondo. Tra fantasmi che ballano, e ricordi disintegrati. Eppure con il senso di esserci, separati, separate, fuori dall’illusione dell’intero. Sarebbe bene conservare questa visione, mentre immaginiamo un nuovo amore. Mentre desideriamo un nuovo corpo che potremo e non potremo avere.

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