CULTURA

Dentro le fabbriche di afflizione è di scena la violenza contro il vivente

«LEGATI I MAIALI», DI TEODORA MASTROTOTARO PER MARCO SAYA EDIZIONI
SILVIA ROSAITALIA

La raccolta poetica Legati i maiali (Marco Saya Edizioni, pp. 74, euro 12), di Teodora Mastrototaro, affronta e approfondisce il tema dello sfruttamento animale, risultando estremamente incisiva al punto che chi legge non può sfuggire alla presa di coscienza rispetto al dolore e alla violenza a cui maiali, tacchini, mucche, cavalli, agnelli, pecore, pulcini, persino pesci, solo per citare alcuni dei protagonisti delle poesie di questo libro, sono condannati dall’industria dell’allevamento, della pesca e della macellazione. Nella prima sezione dell’opera sono gli stessi animali a raccontare del proprio inferno, e la loro voce si staglia contro l’oblio a cui sono destinati in una preghiera sofferta, sciorinata in liriche crude, affilate, che assomigliano a brevi monologhi di una drammaticità a tratti estenuante, impreziosite da metafore e immagini dal notevole impatto emotivo, in cui si palesa tutto l’orrore a cui la mercificazione dei loro corpi conduce.
È impossibile restare nell’indifferenza, non lasciarsi coinvolgere fino a precipitare al fondo buio delle loro parole dolenti, che risuonano come un atto d’accusa al quale non ci si può sottrarre e che alimentano l’acquisizione di una consapevolezza rinnovata.
CIÒ CHE COLPISCE è da un lato la vitalità, la forza desiderante di questi esseri indifesi, che provano fame, sete, caldo e freddo, che osservano le stelle e il cielo in attesa di conforto e salvezza, che posano lo sguardo materno sui propri cuccioli morenti, che si dibattono impazziti in gabbie minuscole dove le mosche fanno il nido nelle loro ferite aperte, che si abbandonano alla disperazione di non avere scampo; dall’altro è il gesto meccanico e implacabile che si accanisce sui loro corpi come fossero cose prive di ogni sensibilità, riducendoli a tranci da esporre con il cartellino del prezzo accanto: «nessun animale che sia degno di lutto», solo stracci di carne da vendere un tot al chilo e scarti da gettare via.
NELLA SECONDA SEZIONE del libro sono invece gli esseri umani a raccontare in prima persona la loro esperienza nei mattatoi e negli allevamenti intensivi: veterinari, evisceratori, scuoiatori, operai macellatori armati di coltelli, pistole e seghe elettriche intonano un controcanto che finisce con l’essere un’altra declinazione della stessa mortifera realtà: «’Al di là delle sbarre non si sa / chi sia veramente in gabbia’/ mormora l’operaio numero 4 / durante l’ora d’aria,/ con addosso il camice di porco.| ’Io qui faccio lo schiavo!’/ grida l’operaio numero 6 / con la pistola in mano / mentre aspetta la carne viva / del bovino numero 6849 / che tarda ad arrivare».
Anche i lavoranti, che dovrebbero incarnare a pieno titolo il ruolo di carnefici, si scoprono vittime dell’identico meccanismo di oggettivazione a cui il processo di produzione capitalista costringe ogni vivente: da soggetti dotati di sentimenti, con un nome e un’identità unici, gli operai di queste fabbriche di afflizione si tramutano in efficienti strumenti di morte, con un numero cucito in luogo del cuore.
MA MENTRE AGLI ANIMALI non è dato di decidere nulla per sé, che non sia guardare ai propri aguzzini con infinita pena, agli umani resta invece la più sovversiva delle possibilità: scegliere di rispettare e di proteggere la vita, a cominciare da quella degli esseri più vulnerabili.

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