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Ci prendono in giro o vanno presi seriamente?

Il filantro-capitalismo
PAOLO CACCIARIITALIA

Non passa giorno che grandi imprenditori, amministratori delegati, Ceo e persino banchieri, soli o associati in organizzazioni di stampo filantropico, non ci grazino con dichiarazioni che perorano la causa della sostenibilità, del bene comune e persino della bellezza. Da ultimo, e solo per fare un esempio, l’imprenditore del lusso François Pinault, tra i 50 uomini più ricchi del mondo, che ottenne in concessione gratuita per cento anni dal Demanio uno degli spazi più incantevoli di Venezia, i magazzini della punta della Dogana per farci una galleria che espone i pezzi delle sue discutibili collezioni d’arte contemporanea, ha confidato in una intervista: “La situazione attuale deve farci riflettere su molte cose; (…) sul fatto che la solidarietà è più che mai necessaria e che al posto degli egoismi nazionali o regionali dovremmo preferire la costruzione di un futuro più condiviso” (La Lettura, 17/1/2021).
Più impegnative ancora le parole di lady Lynn Foreter de Rothschild, ereditiera dell’omonimo colosso finanziario, amministratrice, tra l’altro, della società proprietaria della rivista The Economist, fondatrice di un gruppo di multinazionali chiamato Coalition for Inclusive Capitalism (tra cui British Petroleum, Saudi Armaco, Bank of America, Fondazione Rockefeller, Johns & Johnson e via dicendo) che è stata recentemente ricevuta in Vaticano dal papa in persona: “Il capitalismo ha creato una ricchezza immensa nel mondo, ma ha anche lasciato troppe persone indietro. E ha portato al degrado il nostro pianeta. Stiamo rispondendo alla sfida di papa Francesco di creare economie più inclusive che diffondano i benefici del capitalismo in modo equo e consentano alle persone di realizzare il loro pieno potenziale”.
Attenzione, qui non si sta facendo filantropia! Doug McMillon, ceo di Walmart (la più grande catena al mondo di distribuzione organizzata), a detta di chi è bene informato, sarà uno degli uomini più ascoltati da Biden. McMillon è anche presidente della Us Business Roundtable, il gruppo di lobby aziendali più influente d’America che comprende Apple, JP Morgan, Amzon, General Motor e così via. Il loro manifesto sostiene la necessità di “combattere l’aumento estremo delle sperequazioni anche reinterpretando il capitalismo in chiave più sociale: l’azienda deve produrre benefici non solo per gli azionisti ma anche per gli stakeholders: dipendenti, clienti e la comunità circostante” (M. Gaggi, Economia & Politica del Corriere della Sera, 18.1.2021). La “svolta etica del capitalismo” - un titolo del Financial Times - non finisce qui. C'è una proliferazione di coalizioni che promettono di creare un capitalismo più sostenibile e inclusivo.
Il tema del World Economic Forum di Davos quest’anno, che si aprirà il 25 gennaio in forma digitale, sempre sotto la guida del fondatore Klaus Schwab, sarà il Great Reset, un “New Deal per le imprese” capace di “ricostruire urgentemente le basi del sistema economico e sociale per creare un futuro post-Covid più equo, sostenibile e resiliente”.
C’è da dargli credito? In molti lo fanno. La filosofia che guida le politiche di sviluppo (in chiave green e resilience, si intende) della Commissione europea si basa sull’interesse delle imprese a migliorare le loro performace ambientali e occupazionali. Una enorme produzione normativa è stata varata per invogliare la “grande transizione” del sistema economico: indici ESG (Environmental Social Governance), “tassonomia” degli Impact Investing (regolamento sugli Sustainable and Responsible Investment), classificazioni delle Corporate Social Responsability, etichette e certificazioni per ogni prodotto, ecc.
L’idea è sempre quella: trovare dei meccanismi di mercato che rendano miracolosamente compatibili le tre “P”: Profit, People, Planet. Pardon, ora, in preparazione del G20, la “p” di Profit è stata pudicamente mutata in Prosperity. Basterà?

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