INTERNAZIONALE

Caso Bobi Wine, l’ambasciatrice tenta invano di forzare l’assedio

SCONTRO CON L’ALLEATO UGANDA
MARCO BOCCITTOuguanda/usa

In questo periodo le istituzioni statunitensi sembrano avere un rapporto difficile con i processi elettorali, ovunque si svolgano.
Prendiamo le presidenziali dello scorso 14 gennaio in Uganda, dopo una campagna elettorale funestata da scontri, spargimenti di sangue, fake news bipartisan e l’oscuramento finale dei social network da parte del governo. Un voto già tribolato di suo, perl’inedita sfida portata da una star 38enne della musica afro-ragga, il cantante Bobi Wine, al potere assoluto del presidente Yoweri Museveni, che tira dritto da 36 anni.
Sentendosi insidiato dal potenziale bacino elettorale avversario - il Paese ha la seconda età media più giovane del mondo e Bobi Wine una certa esperienza comunicativa con i giovani - Museveni detto "M7" ha dato fondo a tutto il suo arsenale autoritario. E anche ora che la Commissione elettorale ha decretato la conquista per distacco del suo sesto mandato, non sembra allentare la stretta sul candidato presidenziale Robert Kyangulanyi - vero nome di Bobi Wine - che grida ai brogli e promette di esibire presto le prove.
Fin qui nulla di strano, la dinamica classica non è rovesciata come a Washington, dove a dirsi derubato è il presidente in carica. Di strano semmai c’è che Kyangulanyi - eletto deputato alle ultime legislative - dal giorno del voto presidenziale è agli arresti domiciliari de facto, con l’esercito che circonda la sua residenza «a sua protezione» perché sarebbe «un bersaglio per molti». Mentre lui oltre al furto elettorale denuncia piuttosto intimidazioni, aggressioni e fermi arbitrari tra i membri del suo staff.
Qui entra in scena l’ambasciatrice americana in Uganda, Natalie E. Brown, che ha usato parole dure già prima del voto per il visto negato agli osservatori designati dagli Usa, poi ha addirittura tentato di fare visita al politico-popstar. per accertarsi delle sue condizioni di salute - ha detto - e «verificare se davvero gli viene impedito di uscire di casa». Un gesto irrituale, anche in un paese considerato un alleato di ferro, nelle cui casse gli Stati uniti versano ogni anno miliardi di dollari che vengono poi destinati al sistema sanitario e soprattutto all’efficienza dell’esercito ugandese, che svolge anche per conto degli Usa il lavoro sporco a terra nella missione anti-jihadisti in Somalia.
Gentilmente respinta dalle forze di sicurezza, l’ambasciatrice si è beccata anche una nota governativa che parla di «sgarbo», di «ingerenza», di «arroganza dell’America che pensa di governare il mondo». Uno scontro diplomatico vecchio stile, che ha finito per oscurare il caso da cui aveva avuto origine.

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