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Uno spartiacque epocale, solo due Paesi si opposero

Desert Storm
MARINELLA CORREGGIAusa/iraq

La prima guerra avallata dalle Nazioni unite e pudicamente chiamata «operazione di polizia internazionale» inizia il 17 gennaio 1991. A bombardamenti conclusi, il vicesegretario dell’Onu Maarti Ahtisaari visita l’Iraq e parla di un paese «riportato a un’era pre-industriale».
Fra le vittime dell’intervento imposto dagli Stati uniti si contano la stessa indipendenza e integrità dell’Onu, nata proprio per opporsi al «flagello della guerra». Nel Consiglio di sicurezza onusiano, durante i lunghi mesi fra l’invasione irachena del Kuwait il 2 agosto e l’ultimatum del 15 gennaio, si scrive una triste pagina di storia della geopolitica: per i loro fini di controllo del Medio Oriente e di egemonia, Usa e alleati intrecciano diplomazia e ricatti economici, bastone e carota, parole di dialogo e preventivo invio di navi nel Golfo, denunce e menzogne (le famose incubatrici in Kuwait). A questa escalation i pacifisti occidentali assistono sgomenti protestando nelle piazze.
Il 29 novembre 1990 il dado è tratto. Il Consiglio di sicurezza dell’Onu approva la quindicesima risoluzione, la 678: autorizza gli Stati membri a usare «tutti i mezzi necessari» (inclusa la forza) per ottenere che l’Iraq si ritiri dal Kuwait. L’ultimatum è fissato per il 15 gennaio 1991. Nessuno dei cinque membri permanenti pone il veto: la Cina si astiene; l’Unione sovietica di Gorbaciov vota a favore. Fra i membri di turno, osano dire no solo due Stati: Cuba e Yemen, impegnati fin dall’inizio della crisi. Cuba non sorprende. Lo Yemen, da poco unificato, eccezione repubblicana in una Penisola arabica di re sceicchi emiri e sultani, fin da agosto prende sul serio la propria responsabilità di essere l’unico paese arabo presente in Consiglio di sicurezza e ricorda a quest’ultimo che la Carta delle Nazioni unite richiede di tentare in primis soluzioni regionali.
Ma la Lega araba, sottoposta al brutale diktat degli Stati uniti e dei monarchi del Golfo, il 4 agosto condanna l’Iraq. Solo la Libia si oppone. Yemen, Algeria e Giordania si astengono. Palestina, Sudan, Mauritania esprimono «riserve». La Tunisia non partecipa al voto. Questo malgrado gli evidenti «due pesi due misure» con l’occupazione israeliana della Palestina e i margini di negoziato che traspaiono dalle stesse lettere dell’iracheno Tareq Aziz (pubblicate in Events that led to Gulf Wars, di Abu Bakr Hamzah).
Nel Consiglio di sicurezza l’escalation prevede una massiccia caccia all’unanimità che si intensifica in vista della definitiva risoluzione 678 (una ricostruzione si legge nel saggio Calling the Shots di Phillis Bennis). Occorre intanto evitare un veto. L’Unione sovietica – sull’orlo della dissoluzione – dipende ormai troppo dagli aiuti occidentali e gli Usa ottengono dall’Arabia saudita 4 miliardi di dollari aggiuntivi per Mosca. Alla Cina si promette il ritorno alla legittimità diplomatica dopo 18 mesi di isolamento per i fatti di Tienammen. A ogni membro non permanente non occidentale - Colombia, Costa d’Avorio, Etiopia, Malaysia, Romania, Zaire, Yemen - sono offerti nuovi pacchetti di aiuti. Quanto a Cuba, i diplomatici Usa tentano di verificare se si possa convincere L’Avana a fermare gli sforzi per far dire no anche ad altri paesi. Tentativo, ovviamente, fallito. Poco dopo il voto, lo Yemen viene informato che il suo «no» gli costerà caro come non mai. Stati uniti, Banca mondiale e Fondo monetario internazionale cancellano il pacchetto di aiuti.
L’Arabia saudita espelle quasi un milione di yemeniti che fornivano manodopera a buon mercato. Il paese perde tre miliardi di dollari di rimesse: il disastro economico contribuirà alla guerra civile che scoppierà fra nord e sud nel 1994. Dopo l’imposizione dell’ultimatum, a tentare soluzioni negoziali in extremis – sabotate a sangue da Usa e alleati – sono l’Iran appoggiato dall’Urss, i non allineati guidati da Daniel Ortega presidente del Nicaragua, l’India, la Germania e il segretario dell’Onu. Il 28 febbraio, malgrado l’Iraq dichiari la ritirata, il Consiglio di sicurezza capitola nuovamente e non blocca il massacro di terra dei soldati iracheni, sepolti vivi e inceneriti.
Dopo la guerra, Cuba cerca invano di emendare la risoluzione 687 sul cessate il fuoco, congegnata in modo tale da lasciare l’Iraq sotto embargo. Nei mesi successivi, una delegazione di pacifisti italiani in visita agli ospedali di Baghdad incontra un medico cubano-palestinese, Anuar, che continua a incarnare la solidarietà internazionalista dell’isola di Fidel.

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