CULTURA

Immagini africane che abitano il mondo

«Camerun digitale» di Giovanna Santanera (Meltemi)
SILVIA NUGARACAMERUN/douala

Il cantastorie urbano Makalapati si aggira in bicicletta per le strade di Douala, in Camerun, presentando al pubblico storie esemplari. I protagonisti dei suoi racconti sono disoccupati, domestici, studenti, prostitute, marabutti, bendskineurs (autisti di moto-taxi) alle prese con miseria, corruzione, conflitti famigliari e aspirazioni. Questa la cornice narrativa di «Balade dans la cité», nata nei primi anni 2000 come trasmissione radiofonica poi trasformatasi in telefilm a episodi per l’emittente camerunense Equinoxe Télévision.
SI TRATTA di uno dei prodotti audiovisivi di cui si occupa l’antropologa Giovanna Santanera nel suo Camerun digitale. Produzione video e diseguaglianza sociale a Douala (Meltemi, pp. 200, euro 16), uno studio agile e accessibile dell’impatto che il digitale ha avuto sulla produzione di immagini in movimento nella capitale economica del paese africano tra dinamiche sociali, strutture economico-produttive e immaginari plurali. Non di sola autorialità vive infatti il cinema di paesi come Senegal, Burkina Faso o Camerun tanto più che le opere apprezzate dal pubblico colto occidentale fino a poco tempo fa erano poco visibili agli spettatori del continente a causa di infrastrutture distributive limitate ma anche per questioni di gusto e linguaggio. Lo stesso cinema d’essai ne è consapevole e Santanera cita film come Le complot d’Aristote (1996) di Jean-Pierre Bekolo o Sacred Places (2009) di Jean-Marie Teno che pongono l’accento su quella distanza tra autori e popolazione che il video ha colmato rifacendosi più alla tradizione del teatro popolare, alle performance di strada o alla rivisitazione di certi canoni hollywoodiani che alle forme del cinema d’autore.
Se già l’avvento del video in Africa tra anni ’80 e ’90 aveva moltiplicato le occasioni di produzione e distribuzione dal basso in paesi come Ghana o Nigeria, da cui il fenomeno Nollywood, la diffusione della telefonia mobile e degli smartphone low cost ha aperto nuovi scenari ampliando ulteriormente le possibilità espressive e l’incontro tra domanda e offerta in diversi paesi del continente, tra cui il Camerun.
I giovani sono protagonisti di questa trasformazione ma Santanera spiega che la categoria non va intesa in senso anagrafico bensì sociale perché indica quell’ampia fetta di popolazione urbana che non riesce ad accedere a una completa indipendenza economica e al potere decisionale.
CON UNA RICERCA sul campo che l’ha portata perfino a impegnarsi in prima persona sui set, l’autrice ha raccolto le voci di quelli che Jean-François Bayart chiama «cadetti sociali» documentandone le traiettorie di esclusione ma anche di tensione verso il cambiamento che intersecano la rivoluzione digitale. È infatti la precarietà che induce a svolgere doppi o tripli lavori in diversi settori tra cui, talvolta, proprio quello del video.
Queste produzioni informali non accedono ai circuiti festivalieri o distributivi internazionali ma circolano via streaming, cable tv, vendita diretta di dvd o grazie a proiezioni pubbliche che in alcuni casi, spiega l’antropologa, presentano analogie con il cinema-spettacolo di inizio ’900. Si tratta di opere molto radicate sul territorio tanto che il pubblico spesso segue le riprese dando un riscontro immediato che può influire sulla lavorazione. Dunque, sia dal punto di vista dell’organizzazione produttiva sia dell’immaginario, i video in questione sono molto vicini alla popolazione e si nutrono di un rapporto di interscambio tra realtà e finzione. Chi recita tende a incarnare sullo schermo ruoli analoghi a quelli che svolge nella vita reale e poi a godere di una certa fama foriera di favori. Infatti, benché il lavoro sia per lo più gratuito e sostenuto da forme di autofinanziamento (le tontines), attori e maestranze possono trarre benefici simbolici e relazionali dalla loro attività. Una venditrice ambulante, per esempio, racconta di essere riuscita a ottenere un intervento ospedaliero d’urgenza a credito perché il personale medico l’aveva riconosciuta come attrice, sapeva dove ritrovarla ed era sicuro che avrebbe onorato il suo debito.
Ma «la pratica video non colora necessariamente la vita di prestigio e riconoscimento sociale» e le difficoltà economiche, le diseguaglianze, la precarietà delle strumentazioni e delle infrastrutture di cui si servono le troupe spingono alcuni soggetti a parlare di «cinema piratato», di un tentativo sempre in scacco di imitare il cinema occidentale. Ciò non toglie, però, che in un contesto multiculturale, sincretico e complesso come Douala, «caratterizzato da moralità e memorie plurali» e dalla coesistenza di molti diversi codici di auto-rappresentazione, la maggior parte degli artisti utilizzino il cinema/video come strumento collettivo per «meditare sull’esperienza e attribuirle un senso» emancipandosi da forme di dipendenza simbolica di matrice coloniale.
PER DI PIÙ, l’immagine dell’Africa contemporanea che emerge da alcuni dei video in questione è ben lungi, spiega il libro, dall’estetica del dolore del mondo umanitario articolata secondo polarità come Noi/Loro, Occidente/Africa, chi sta bene/chi sta male. Pur consapevoli di difficoltà, ingiustizie e violenze, le opere dei cadetti camerunesi si smarcano dunque da una rappresentazione vittimistica del contesto in cui vivono e aprono uno spazio nuovo «dove è possibile reimmaginarsi come africani che abitano il mondo contemporaneo, senza per questo occidentalizzarsi».

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