CULTURA

Prognosi storica di un sistema non più sostenibile

SCAFFALE
FRANCESCO ANTONELLIITALIA

Il capitalismo sta crollando? Una simile domanda poteva apparire del tutto folle all’inizio del Duemila. Ma dopo la grande crisi economica del 2007 e la pandemia che sta ancora imperversando in tutto il mondo una tale questione ridiventa legittima e comincia a circolare con sempre più insistenza negli ambienti accademici, e non solo, di tutto il mondo. Questo è il retroterra all’interno del quale si muove il nuovo saggio di Paolo Perulli Debito sovrano. La fase estrema del capitalismo (La Nave di Teseo, pp. 193, euro 20,00).
COME ALTRI STUDIOSI che si sono posti, negli ultimi dieci anni, il problema di analizzare il capitalismo, anche Paolo Perulli muove il suo studio dalla messa al centro delle condizioni antropologiche e ideologiche che presiedono alla riproduzione dei meccanismi chiave dell’assetto capitalistico: l’indebitamento e la finanziarizzazione, strettamente intrecciati tra loro. Come già osservato da Wolfgang Streeck, questi due processi fanno del capitalismo contemporaneo un gigantesco castello di carta che si auto-alimenta ma, a lungo andare, del tutto insostenibile, proprio nella sua virtualità. Perulli recupera la classica analisi di Walter Benjamin del 1921 e, attraverso una critica dell’economia politica dominante, interpreta questo capitalismo dell’indebitamento come una vera e propria religione, profondamente nichilista, che sostituisce, con il denaro, il mito dell’opulenza, l’immagine e il consumismo, bisogni, desideri e pulsioni emozionali prima organizzati dalla religione trascendentale.
IL CAPITALISMO non è il trionfo del secolarismo ma, al contrario, l’affermarsi di condizioni del tutto non-razionali per sostenere il modello «ufficiale» dell’«uomo economico» ultra-razionale con cui il capitalismo si presenta. Il debito rappresenta così non solo un meccanismo sistemico ma l’equivalente della colpa e della gestione del senso di colpa, individuale e collettiva, che caratterizzava, in particolare, il cristianesimo tradizionale.
QUESTA RELIGIONE capitalistica nella sua globalità ha rotto definitivamente il proprio rapporto con il liberalismo e con la democrazia riproponendo, in fondo, la veste già assunta negli anni Trenta: così come allora esso sopravviveva e prosperava nei regimi fascisti, oggi lo ritroviamo molto più a suo agio in paesi autoritari o semi-autoritari che in quelli democratici. Questo genera modelli diversi di capitalismo e di rapporto con la sua essenza religiosa debito-finanziarizzazione, dove uno Stato forte e la pianificazione tecnocratica si incaricano di organizzare lo sviluppo stesso del mercato e del capitale.
NELLA LETTURA di Perulli, la prossima crisi strutturale sarà necessariamente una nuova crisi del debito. In questa prognosi storica – oggi resa attuale dalle conseguenze della pandemia – non è più la rivoluzione che promuove nuovi assetti ma la dinamica stessa di funzionamento di un sistema sempre più insostenibile. Dopo aver passato in rassegna le varie analisi che mettono al centro il tema della riforma del capitalismo – le quali ruotano attorno al ristabilimento di varie forme di controllo democratico, territoriale e politico – Perulli individua le cinque fratture più serie che fanno da vettore alle trasformazioni: il rapporto con gli ecosistemi, con i territori, con la tecnica, la guerra e le moltitudini multietniche.
Socialismo, sole dell’avvenire? Non proprio. I grandi interrogativi che il libro lascia in sospeso e che, allo stesso tempo suggerisce, sono infatti due: il primo è se effettivamente il capitalismo sia riformabile e redimibile attraverso forme di trasformazione progressista che lo rendano più decentrato e, dunque, controllabile al livello democratico.
LA SECONDA è quali formazioni socioeconomiche si affermeranno nella transizione: l’autoritarismo politico, tecnicamente avanzato, paternalistico, tecnocratico, radicato in alcuni paesi asiatici e che sta ricevendo, in termini di legittimazione, una spinta formidabile proprio dalla pandemia, pare meglio attrezzato per realizzare quella «sopravvivenza del capitalismo dopo la morte del capitalismo» che, in fondo, le pagine di Perulli come di altri analisti e studiosi, sembrano restituirci. E qui appare essenziale proprio rimettere al centro la questione della costruzione dei soggetti progressisti dell’alternativa, per non essere definitivamente travolti dallo tsunami epocale che ci sta investendo.

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