CULTURA

Un archivio fantastico sulle tracce d’autore

«Il dannato caso del signor Emme» di Massimo Roscia
FABRIZIO SCRIVANOITALIA

Sembra che Ludovico Ariosto non amasse i viaggi, soprattutto se scomodi, e che solo dal mappamondo, o dalle cartine geografiche, traesse l’immaginazione per raccontare quel volteggio dei suoi personaggi del Furioso tra i continenti. Anche Emilio Salgari, che avrebbe magari voluto fare qualche viaggio avventuroso ma non aveva mai avuto abbastanza denari, ambientava i suoi romanzi in terre e mari remoti sempre e solo ricomponendo in essi minuziose letture esotiche. E la lista di viaggiatori immaginari potrebbe srotolarsi con abbondante velocità, ma fermiamoci a questa nuova, stravagante avventura raccontata da Massimo Roscia. Il dannato caso del signor Emme (Exòrma, pp. 324, euro16,50) è un romanzo che mette in moto un archivio, l’archivio del misterioso signor Emme, e lo fa viaggiare per l’Europa.
LE FOTO, I LIBRI E LE LETTERE di questo signore, che fu giornalista, scrittore e soldato, si infilano gli stivaletti alati del barone di Münchausen, e con la stessa disinvoltura tendono a sublimare un «fedele resoconto» biografico in un palcoscenico di invenzioni e spavalde, divertenti, «colossali bugie».
Nel romanzo, la ricostruzione della vita di Paolo Monelli (il vero signor Emme) è la spericolata missione dei cinque personaggi che, a bordo di un camper con le matricole abrase, percorrono in lungo e in largo il continente. Si sono messi alla ricerca delle prove materiali che possano dimostrare che un signor Emme è esistito e devono presentarle all’esame della Pontificia Congregazione, dalla cui decisione dipende la cancellazione della condanna alla damnatio memoriae. Che fine farà il piccolo archivio di reperti rocambolescamente accumulati dai cinque viaggiatori? E che fine farà l’archivio, quello vero, di Paolo Monelli?
A RACCONTARE LA VICENDA si alternano tre voci, ciascuna dotata di caratteristiche speciali. Ed è con estrema agilità, e fedeltà al personaggio, che la scrittura di Massimo Roscia si incarna nell’una e nell’altra. Un ragazzo, appena undicenne, dotato di un QI prodigioso che gli permette, con la sua cultura e il suo acume tanto scientifici quanto umanistici, di tenere sotto controllo ogni minimo particolare della vicenda.
SUO FRATELLO GEMELLO, apparentemente «affetto da grave ritardo mentale», ma dotato in realtà di «mirabolanti talenti» che gli permettono di comunicare, e vedere, ben oltre il senso comune. E infine, qualcuno o qualcosa, un complicato composto chimico che vive dentro un’ampolla protetta da un involucro termico, cui è dato il familiare acronimo di Buf, capace di pensare ed elaborare dati, e raccontare. A guidare il camper c’è la mamma Carla, donna votata all’affermazione dei diritti di giustizia degli oppressi; e a testimoniare gli effetti mortali di ogni censura c’è lo zio Giordano, sì, proprio quel Giordano Bruno che fu arso per le sue idee.
COLLOCAZIONE PIÙ ADATTA, se non nella collana di narrativa di Exòrma dal provocatorio titolo «Qui si scrive male», questo romanzo non avrebbe potuto trovare. Con affilata padronanza della lingua e degli stili, il profilo di Paolo Monelli, già molto vario, nel gioco che avvolge fatti reali e falsi d’autore, diventa caleidoscopico, molto simile davvero a quel cangiante patchwork che scorgiamo in fondo al tubo di cartone.
E se ora si volesse dire qualcosa di Paolo Monelli, fuori da questa finzione verace che Roscia propone, dovremmo ricordare la sua passione per la fotografia (non si staccava mai dalla sua macchinetta), la lunga carriera di reporter, a partire dalle cronache dal fronte durante la Grande Guerra (da cui nacque un libro straordinario, Le scarpe al sole), la serie di viaggi come cronista, le tante amicizie nel mondo della cultura letteraria, le scorribande giornalistiche nell’enogastronomia, il ritorno in divisa come cronista di guerra sui campi del Nord Africa, l’arruolamento come inviato di guerra nel Corpo italiano di liberazione, il libro Roma 1943 (una cronaca della «città aperta», recentemente riproposta da Einaudi), il sodalizio con gli Amici della domenica e l’invenzione del Premio Strega.
Tra le tante passioni di Monelli c’era, non ultima, quella per la lingua italiana, per la quale nutriva un affetto per l’integrità grammaticale e per la precisione e la correttezza dell’uso delle parole. Con un lavoro giornalistico di divulgazione, in parte raccolto in L’alfabeto di Bernardo Prisco e Naja parla, aveva affrontato il tema con ironia e severità divertita. Ed è proprio questo aspetto, quello cioè di un lavoro narrativo ch’è cura della lingua, a tenere insieme i percorsi immaginari disegnati da Roscia, con fantasia e gusto del falso, attraversando l’archivio Paolo Monelli.

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