CULTURA

La «sindrome tragica» nel destino dell’Occidente

Nel centenario della morte di Max Weber, un convegno sulle sfide aperte
FRANCESCO ANTONELLIITALIA

Nell’occasione del centenario della morte di Max Weber, uno dei più grandi intellettuali del Novecento, autore di grandi classici come L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1904-1905) o La politica come professione (1919), stroncato da quella influenza spagnola che tanto assomiglia alla pandemia che stiamo vivendo, diventa fondamentale mettere a confronto diverse categorie della teoria weberiana con le emergenze e le sfide presenti nella società contemporanea. Misurare il nostro mondo profondamente in crisi e, allo stesso tempo, in trasformazione, con quel mondo di inizio Novecento che, attraverso i passaggi cruciali della Grande guerra, delle rivoluzioni che ne seguirono in Germania e in Russia e dell’epidemia, era altrettanto in cambiamento.
CONSCI, IN PARTENZA, di una differenza fondamentale: se il dramma del 1920 poteva comunque giovarsi di una prospettiva di trasformazione e di rigenerazione come quella rappresentata dal mito e dalla pratica della Rivoluzione d’Ottobre – cioè della forza fondamentale dell’idea di progresso, pur con tutte le sue aberrazioni – il 2020 si presenta con uno slancio tragico; poiché noi viviamo in un orizzonte che non è solo post-apocalittico ma ormai post-progressista.
È forse per questo che Max Weber, che nella «sindrome» tragica scorgeva il destino stesso dell’Occidente come il declino della libertà in favore del dominio di apparati e poteri impersonali, è oggi percepito come un contemporaneo. Forse molto di più di come non lo fosse nel suo tempo, per molti versi ancora alle prese con una certa innocenza – da lì a poco presto e drammaticamente perduta – della modernità.
Ma il senso del tragico come impossibilità di aspirare ad un mondo migliore, ad un più alto grado di emancipazione e di giustizia, non è l’unico lato che l’opera weberiana offre alla nostra contemporaneità.
È A PARTIRE dagli anni Ottanta che, grazie fra l’altro anche al lavoro pionieristico di Bendix e di molti altri, sono emersi, nell’interpretazione degli studi di Max Weber, nuovi nuclei tematici centrali: il processo di razionalizzazione e lo sviluppo capitalistico all’interno dei quali hanno avuto origine, in modo inatteso e non deliberatamente progettato, il mondo occidentale così come la modernità.
Razionalizzazione vuol dire essenzialmente passaggio a forme sempre più perfetto di organizzazione, produzione e modi di guardare al mondo, dal punto di vista dell’efficienza e dell’efficacia. I due valori che rendono culturalmente possibile il capitalismo. Lungo questa strada, Weber ha individuato molte delle tensioni irrisolte che riconosciamo nella nostra epoca come il ruolo centrale dell’immaginario – e sulla sua canalizzazione nel consumismo – o il formarsi di una «gabbia di gabbie», attraverso le mille istituzioni burocratiche e i vincoli tecnico-politici che si formano, in cui l’individuo è consegnato a un dilemma nel quale «potere» e «interessi» sfuggono alle categorie di una politica che l’economia globalizzata e le forme della sua comunicazione, hanno svincolato dall’ancoraggio ai conflitti e ai movimenti sociali, come fu nel Novecento.
È PROPRIO L’INCERTEZZA degli effetti che tutto questo porta con sé, e che l’evento inaudito e inatteso della pandemia ha a sua volta accentuato, come suggerisce Alessandro Cavalli in una recente intervista, a farci comprendere, con Weber, che il futuro non è deterministicamente scontato: quale futuro si realizzerà dipende dai nuovi processi sociali e politici che si riusciranno ad innescare.
Dalla capacità di trasformare i vincoli in opportunità. Anche per tali motivi, molte domande da cui origina la ricerca weberiana possono essere anche le nostre domande e il senso di apertura che comunque pervade le sue risposte – anche quando in esse la dimensione tragica ritorna con forza – può ispirare ancora oggi la nostra ricerca. Scientifica e pratico-politico nonostante spesso Max Weber, attraverso una lettura semplificatoria dei suoi contributi metodologici, venga accostato ad una sin troppo rigida divisione tra «giudizi di fatto» e «giudizi di valore».

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