CULTURA

La «rivoluzione» politica del papato datata Anno Mille

I saggi di Gert Melville e Nicolangelo D’Acunto indagano le trasformazioni nei confronti del potere imperiale
MARINA MONTESANOvaticano

È vero che il «mito» dell’Anno Mille è stato smontato da tempo, tuttavia la svolta del millennio ha costituito un momento fondante per la storia d’Europa: non certo per il superamento di presunte paure millenaristiche, quanto per la rivoluzione messa in atto dal papato nel corso dell’XI secolo. Nella concezione comune, «papato» e «rivoluzione» sono immagini che non vanno d’accordo, ma si tratta di stereotipi legati alle concezioni che abbiamo non tanto della storia della Chiesa, quanto piuttosto del concetto di «rivoluzione». Se lo prendiamo per ciò che davvero significa, allora non c’è dubbio che nel corso di una manciata di decenni il vescovo di Roma e la sua corte abbiano impresso al proprio statuto una svolta densa di conseguenze per la società e la scena politica.
LO DIMOSTRA agilmente Nicolangelo D’Acunto in La lotta per le investiture. Una rivoluzione medievale, 998-1122 (Carocci, pp. 256, euro 19), che si apre con una disamina di come il tema sia emerso nella storiografia, i passi falsi, i fraintendimenti, ma ormai anche l’acquisita coscienza di come si sia creato un consenso intorno all’importanza di questo momento. D’Acunto non rifugge ai giudizi taglienti: lo mostra la scelta del titolo stesso, dal momento che «lotta per le investiture» è espressione che molti medievisti oggi vorrebbero seppellire, perché non «originaria», ma che resta dirimente per comprendere come intorno alle «investiture» vescovili, ossia all’attribuzione di poteri amministrativi ai vertici delle Chiese locali, si giocò larga parte della rivoluzione papale.
L’età rivoluzionaria si aprì con la volontà degli imperatori delle case di Sassonia e di Franconia di far fronte a un clero spesso appiattito sui costumi dei laici e poco cosciente del proprio ruolo, che sovente era al contempo religioso e temporale: vescovi e talvolta abati erano infatti anche funzionari dell’impero e investiti dal sovrano di benefici, dunque per questo bisognava che fossero culturalmente all’altezza dei compiti loro affidati.
Il programma imperiale si incontrava con tutti quei cristiani rigoristi che da tempo chiedevano che alla testa della diocesi fossero scelti pastori moralmente migliori. È in questo contesto, scrive D’Acunto, che Pier Damiani e Umberto di Silva Candida, fra i massimi fautori della riforma della Chiesa, «inventarono» la simonia, «la parola chiava della pubblicistica che a partire dal regno di Enrico III cominciò a perseguire una restaurazione dell’ordinamento che si pensava avesse retto la cristianità occidentale almeno a partire dai tempi di Carlo Magno».
LA LOTTA per la libertas (termine che si traduce come una via di mezzo fra indipendenza e privilegio, ben lontano dunque dall’astrattezza della «libertà» odierna) della Chiesa portò con sé sollevamenti delle masse istigate da monaci riformisti contro i vescovi legati al partito imperiale; fu un momento che segnò soprattutto la storia delle città italiane centro-settentrionali, dove il vuoto di potere frutto della vacanza dell’impero durante la lotta per le investiture, indirettamente causò la nascita dei governi comunali.
Non è un caso che anche un’altra recente uscita, Gert Melville, Le comunità religiose nel Medioevo. Storia e modelli di vita (Morcelliana, pp. 486, euro 32), dedichi ben poco spazio al monachesimo dei primi secoli, per concentrarsi sui secoli di mezzo del Medioevo, e mettere in risalto l’importanza di Cluny e Cîteaux nel forgiare le istituzioni religiose prima della comparsa di Ordini più celebri quali Predicatori (o Domenicani) e Minori (o Francescani). Anche altri grandi fenomeni che appaiono a partire da questo momento, come le crociate e i movimenti ereticali, risultano incomprensibili senza questo passaggio. Come tanti ricordano, lo scontro fra l’imperatore Enrico IV e papa Gregorio VII rappresentò il culmine di tale processo di cambiamento, ma lontano dall’aneddotica l’autore ne disseziona l’importanza profonda, rispetto alla quale il concordato di Worms del 1122, con il quale si chiude il libro, può sembrare un anticlimax, un «finale deludente» scrive D’Acunto, all’indomani di un conflitto che si era spinto troppo oltre, che aveva margini di ambiguità tali da non risolvere nulla in via definitiva.
MA ORMAI L’EUROPA uscita dalla rivoluzione dell’XI secolo non era più la stessa, e avrebbe portato il peso di quel vissuto, per molti versi fino al nostro presente: dall’adozione generalizzata del celibato del clero, al primato gerarchico del vescovo di Roma rispetto al resto della Chiesa, allo scisma con il patriarcato orientale, alla separazione definitiva tra chierici e laici, questi ultimi «ormai esclusi dal controllo del patrimonio ecclesiastico e più in generale da ogni forma di partecipazione alla gestione delle chiese».
Senza contare la definitiva rottura con l’impero, che fino a quel momento aveva costituito la guida anche sacrale della Cristianità, funzione che ormai il papato reclamava, e avrebbe reclamato, soltanto per sé.

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