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Quando la politica era grande e bella

VINCENZO VITAITALIA/bolzano

Lidia Brisca Menapace aveva 96 anni, coetanea di Rossana Rossanda, come amava ripetere. «Cara Brisca», esclamava quando la vedeva il presidente emerito Scalfaro (la erre moscia risuonava con autorevole fonetica), legato dalla comune estrazione novarese più che da una politica vissuta da parti assai diverse. Ancorché si fossero incrociati nel periodo degli anni cinquanta nella (allora) comune casa della Democrazia cristiana.
Purtroppo, un annus horribilis ci ha portato via anche lei. La causa efficiente di una scomparsa - cui non si voleva pensare - è stato il maledetto Covid, l’ultima maledizione di un creatore forse pentito di aver dato luogo a un mondo così pieno di brutti personaggi. Da Trump in poi. Crudeli, autoritari e pure guerrafondai.
Ecco, proprio la tensione pacifista, figlia di una cultura che aveva saputo incrociare il meglio del cattolicesimo democratico con il marxismo riletto con le lenti delle scuole critiche da Francoforte in poi, è stato uno dei leit motiv di un impegno politico e morale vastissimo. Plurale, colto e attento a interlocutrici e interlocutori mai trattati con supponenza.
Proprio il pacifismo animò la sua (troppo) breve esperienza parlamentare con il gruppo di Rifondazione comunista nella legislatura del 2006-2008. Doveva diventare presidente della commissione difesa del senato, ma ci fu l’ostruzionismo delle destre che le preferirono quel De Gregorio, passato in seguito alle cronache per vicende non commendevoli. A scatenare l’opposizione fu un’intervista al Corriere della sera in cui si criticavano le Frecce tricolori e le loro retoriche. Guidò, però, la commissione di inchiesta sull’uranio impoverito.
Pacifismo e molto altro nel lungo romanzo che ha scritto. Nel 1952 si era trasferita a Bolzano e nel 1964 fu la prima donna eletta nel consiglio provinciale, assumendo la carica di assessora agli affari sociali.
All’inizio degli anni sessanta avviene la vera svolta della sua vita. Andò all’università cattolica di Milano, dove ebbe un incarico non rinnovato a causa di uno scritto dal titolo insopportabile per un mondo conservatore e chiuso: Per una scelta marxista. Eravamo nell’anno fatidico, il ’68. E Lidia, durante un’occupazione, fu portata via a spalle dalla polizia.
Dopo l’uscita dalla Democrazia cristiana, avviene - nel ’69 - l’incontro con il gruppo de il manifesto.
Portatrice di approcci contigui e tuttavia differenti rispetto alle radici comuniste di Magri, Rossanda, Parlato, Castellina, Pintor, Milani con cui si intrecciò con passione ed originalità. Anzi. Un mosaico così ricco e forse irripetibile si completò con Lidia Menapace. In fondo, il filo conduttore era proprio l’incrocio, l’ibridazione tra la componente più coraggiosa, eretica e di sinistra del partito comunista, e l’espressione del dissenso cattolico. Le eresie si incontrano. Non a caso nel 1973 fu promotrice del movimento dei Cristiani per il socialismo.
Sempre componente della segreteria del partito - nel frattempo era nato il Pdup per il comunismo - e sempre attiva nella scrittura (bellissima) sul quotidiano che amava.
Femminista subito, prima ancora che lo straordinario moto carsico trascinasse tantissime compagne. Lo fu quando ancora stentava la contraddizione di genere ad entrare in un linguaggio che non osava andare oltre l’emancipazione. Punto di riferimento del dibattito tra le donne, ne accompagnò - con assoluta libertà di giudizio- il passaggio alla cultura della differenza. Divenne presidente dell’unione donne italiane, cercando di rinnovarne le modalità di azione.
Dal 2011 attivissima nell’associazione nazionale partigiani, ha dedicato una parte rilevante dell’attività degli ultimi anni alla memoria del tempo di una Resistenza intesa non come mero racconto storico, bensì in quanto mobilitazione permanente contro fascismi e razzismi vecchi o nuovi.
Il dibattito nel Pdup era piuttosto vivace e - senza mai varcare i limiti del confronto solidale - Lidia Menapace costituiva una bussola per aree associative o figure un po’ meno interne al nobilissimo scontro interno al partito comunista. In fondo, interpretava l’anima volta a scoprire - come li chiamava - i comunisti inconsapevoli. Però, insisteva sempre, per un vero cambiamento l’ottica maschile pur sinistrissima non basta. Lo sguardo delle donne vede e raccoglie altre tracce di verità. Di qui, la grande amicizia con la filosofa Luce Irigaray, teorica della riscrittura al femminile di leggi e codici.
Non fu solo una vivace pensatrice. Al contrario, l’attività anche minuta e l’eterno tour nell’Italia degli operai e degli studenti ne faceva una dirigente politica a tutto tondo. Ironica e severa.
Fu anche, nei primi anni ottanta, consigliere comunale nella Roma di Luigi Petroselli e consigliera regionale del Lazio.
Non seguì la maggioranza del partito nel Pci a fine del 1984. Non ci credeva, non per scarsa simpatia verso la grande organizzazione o verso il segretario Magri che rispettava e stimava, bensì per il timore di una rapida omologazione. Si iscrisse in seguito a Rifondazione comunista, dove è rimasta fino all’ultimo, candidandosi con le liste di Potere al popolo nelle elezioni del 2018.
Comunque, in ogni scelta non considerava neppure per un attimo qualche eventuale convenienza personale. Ma, se mai, il che fare, titolo del suo ultimo libro.
La bella politica, già ridotta all’osso, ha perso una testimone e una interprete d’eccezione.

 

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