VISIONI

«Petite fille», immagini per narrare l’invisibile

In concorso a Filmmaker il film di Sébastien Lifshitz sulla bambina trans* Sasha, la sua famiglia e la lotta con la scuola
SILVIA NUGARAITALIA

Sasha è una bambina di sette anni e Petite fille di Sébastien Lifshitz racconta un anno della sua vita tramite interviste alla sua famiglia – in particolare alla madre – e mostrando momenti di quotidianità o di scontro con un mondo che è ostile nei confronti di chi scompiglia la norma e devia dai ranghi dell’ovvio. Infatti, la dichiarazione di sesso «maschio» iscritta sul certificato di nascita di Sasha rischia d’impedirle di sognare il suo futuro e di privarla di un’infanzia serena a causa dell’impossibilità di assumere a scuola l’identità femminile che sente propria. Ma, a differenza di molte altre persone trans come lei, Sasha ha la fortuna di vivere in una famiglia che la ama e la comprende. Sorella, fratelli e genitori sono pronti a battersi per difendere il suo diritto alla felicità.
Dopo Adolescentes (2019), per il regista francese si tratta di proseguire una riflessione cinematografica sulla crescita e sul rapporto madre-figlia ma anche di tornare agli interrogativi posti alle strutture sociali e ai rapporti interpersonali dai soggetti trans* (con l’asterisco che Halberstam usa per indicare le diverse forme di varianza di genere).
GIÀ CON «BAMBI» (2013) Lifshitz aveva tracciato il ritratto di una delle prime persone trans* note al grande pubblico in Francia, Marie-Pierre Pruvot. Bambi era il suo nome d’arte nel mondo del music-hall parigino degli anni ’50, prima di ritirarsi dalle scene e dedicarsi all’insegnamento. Ed è proprio dall’incontro con Bambi che si è sviluppata l’idea originaria di questo nuovo film, presentato all’ultima Berlinale e ora in concorso a Filmmaker (su MYmovies da oggi fino alle 14 del 7 dicembre).
«Quando giravamo il film su di lei, Bambi mi raccontò che all’età di tre o quattro anni già sentiva di essere una bambina, ma erano gli anni ’30 ed era praticamente impossibile discutere apertamente di intimità o sessualità, quindi le ci volle molto coraggio e determinazione per diventare ciò che sentiva di essere. Quelle parole mi hanno accompagnato a lungo e mi hanno fatto riflettere su come il nostro genere si manifesti molto prima dell’adolescenza anche se nell’infanzia non disponiamo sempre delle parole o del coraggio di esprimerci», ha dichiarato il regista quando lo abbiamo incontrato a Berlino.
Nella vita di Sasha le parole possono ferire o curare, imprigionare o liberare, imporre limiti o farli saltare completamente e il film racconta tutto questo ma con estrema grazia compie anche qualcosa di squisitamente cinematografico: rende palpabile l’invisibile. Quel che Sasha non dice filtra dal suo corpo, sgorga dai suoi occhi, si sprigiona dai suoi gesti, dal balenare del suo sorriso. È nelle immagini e nella colonna sonora che batte il cuore del film, non in parole e narrazioni dal valore più che altro strumentale come lo stereotipo del corpo-prigione o l’etichetta diagnostica «disforia di genere» che ancora oggi, purtroppo, rappresentano un viatico da scontare per muoversi verso un territorio in cui sentire e apparire coincidono.
«PETITE FILLE» è un film che sollecita un rapporto con le immagini che supera l’identificazione. Il valore dell’opera sta nell’atteggiamento di Lifshitz nei confronti dei soggetti, nel modo di filmarli con un rispetto e un’intensità che non li erige a simboli né li carica di messaggi ma ce li consegna nella loro dimensione unica e umanissima. «Ho cercato una famiglia che mi permettesse di raccontare la storia di una bambina trans oggi per capire a che punto siamo. Ho postato un messaggio su un forum dove i genitori di persone trans condividono esperienze e domande. Mi hanno risposto in due: una donna dal Canada che cantava le lodi del suo paese perché aveva alle spalle un’esperienza estremamente positiva, e poi la madre di Sasha. Il mio messaggio le aveva fatto paura ma l’aveva anche incuriosita quindi ci siamo incontrati. È stato molto intenso. Come si vede nel film, quella donna è un blocco di sincerità ed emotività. Ho capito che stava lottando e volevo starle accanto. Abbiamo pensato che fare un film avrebbe potuto aiutare loro ma anche altre famiglie in una situazione analoga. Sasha si è dimostrata molto desiderosa di partecipare, il che ha convinto la madre a farmi conoscere il resto della famiglia e lì ho sentito quanto amore ci fosse tra loro, come se i genitori avessero costruito uno scudo d’affetto per proteggere Sasha».
Tanto amorevole è la famiglia, quanto respingente l’istituzione scolastica che ha negato l’accesso alla troupe e che nel film rappresenta l’antagonista numero uno. Il documentario trova infatti il suo perno drammaturgico nella lotta intrapresa per ottenere che la scuola riconosca a Sasha il diritto di presentarsi in abiti femminili ed essere identificata al femminile. Solo una volontà ferrea della madre e l’ausilio di una pedopsichiatra specializzata in transidentità permettono a Sasha di ottenere infine ciò che desidera. Petite fille è il frammento d’infanzia di una creatura che si scontra con il mondo e lo rimette in discussione.
LA FEMMINILITÀ di Sasha è certo normativa ma, ha spiegato il regista, «la sua è anche una reazione alla rigidità della scuola. Tant’è vero che, una volta che la morsa istituzionale si è allentata, lei ha iniziato a mischiare i codici di genere». Il film è anche il ritratto di una madre con tutti i suoi sensi di colpa e interrogativi, nonché la forza di accogliere la differenza e di non rassegnarsi di fronte al dolore della sua creatura.

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