CULTURA

Raccontare il cuore pensante del mondo

Un percorso di saggi dedicati alla scrittrice olandese morta a 29 anni
ALESSANDRA PIGLIARUolanda

L’animo umano è nelle mani, il temperamento insieme alla storia che distingue i soggetti attraverso talenti, inclinazioni e cifre del carattere. Almeno secondo chi praticava la psicochirologia alla metà degli anni Quaranta del secolo scorso. Niente a che vedere con la divinazione né con la lingua dei segni, nelle mani è semplicemente inciso ciò che siamo.
Pubblicato dall’editore De Haan nel 1981 e in traduzione italiana da Adelphi nel 1985, il Diario di Etty Hillesum che comprende l’arco tra il 1941 e il 1943, si apre e prosegue come una lunga lettera rivolta allo psicochirologo junghiano Julius Spier da cui si reca il 3 febbraio del 1941 per cominciare un’analisi. Le mani di questa giovane donna, ebrea olandese dal volto lunare e pensoso, non sono ancora quelle del Dio cui si affiderà nei mesi successivi ma le proprie, irriverenti ed esposte che ce la fanno incontrare nel candore di carezzarsi il capo «con gesto materno». Con quelle mani scrive, si autorizza fino allo sbigottimento dopo aver conosciuto Spier che la sprona, il signor S. - curva maestosa e incompiuta di una nostalgia assoluta.
È UNA LETTRICE instancabile, Hillesum, poeti e classici russi, infine Agostino, la bibbia e il vangelo. L’operosità tattile del pensiero con cui entrerà a Westerbork (il suo primo ingresso il 30 luglio 1942) prima di finire ad Auschwitz dove morirà ventinovenne il 30 novembre del 1943, la porterà a consegnare i suoi quaderni all’amica Maria Tuinzing cui chiederà di custodirli.
Se è vero che nel Diario si condensa una delle parabole più dolorose del Novecento, sarebbe miope non considerare quanto si faccia strada la storia vivente di un amore sconfinato, la fatica di concentrarsi sulla giustizia di sé, una compassione talmente gravida da piangere a dirotto, la scoperta prodigiosa di comprensione e gratitudine quando riescono ad agitare lo spirito fino alla fine dei propri giorni. Dunque scriverne, chiedendosi se si è all’altezza di farlo e intanto procedere.
Molti e diversi sono stati gli studi su Hillesum, ricostruzioni postume, omaggi e fascinazioni poiché quel grado di sensibilità rappresa porta maldestramente a credere di aver trovato una chiave di prossimità verso una esperienza che in fondo può considerarsi universale. A ribadirlo è Sara Gomel nel suo Parole mie con voce tua. Etty Hillesum e l’esperienza del raccontarsi (Castelvecchi, pp. 190, euro 18.50) che nel 2018, a Middelburg, ha condotto uno studio sui materiali di archivio del Centro di ricerca dedicato alla giovane olandese. Tessitura filosofica che da Montaigne e Kierkegaard passa per Martin Buber, il carattere dialogico della scrittura è insito, secondo Gomel, nell’inabissarsi con tale intensità da dichiarare la connessione tra noi e gli altri. La relazione è anzitutto duale, sono in effetti diadi di cui un elemento è rappresentato dall’autrice nei confronti di sé stessa. Sarebbe a dire che si innesca un’ermeneutica che spinge fuori dalle pagine se non fosse che a giocarsi - per chi scrive e chi legge – è un corpo a corpo di sostanziale e indifferibile specialità. E se le declinazioni per prendere parola su di sé scorrono dall’autobiografia al memoir, fino allo stile confessionale, molti sono i diari che nel corso del Novecento sono stati a firma di donne che hanno inaugurato il riconoscersi come soggetti sessuati della storia; pensiamo solo a Susan Sontag, Sylvia Plath e Anais Nin o, per restare in Italia, a Carla Lonzi. Cosa abbia di letterario una esperienza così internamente vissuta è presto detto leggendo proprio Etty Hillesum, l’apprendistato di chi, al centro di un continente in pezzi, si accorge dello sfacelo che da lì a pochi mesi l’avrebbe travolta. Consente di assistere al passaggio, per chiunque la legga, di una trasformazione di una donna in rivolta che allarga le braccia verso l’ineluttabilità ardente di sé stessa. E lo sa restituire. Punto per punto.
Per Sara Gomel le pagine di Hillesum formano il diaframma irripetibile di un’alterità che non potrebbe presentificarsi altrimenti. L’orizzonte filosofico si configura da un «prestare ascolto dentro» (Hineinhorchen), metodo elettivo descritto da Hillesum come pratica materiale puntata all’essenzialità, di sé stessa, degli altri e di Dio.
C’È ALLORA in ogni passaggio una reciprocità, l’ascolto non può essere che una conversazione precedente la preghiera, è accoglienza delle creature terrestri, radicata al suolo con lo sguardo rivolto al cielo di «una ragazza che non sapeva inginocchiarsi». È il vibrare delle cose minuscole, di chi incrocia seduta «nell’angolino» di Westerbork ma anche prima di entrarci, fino ad ammettere con Rilke – di cui è stata innamorata devota – «la grandezza degli dei» individuando che «dipende dalla loro precarietà, dal fatto che qualunque sia la dimora in cui li si custodisce, al sicuro lo sono soltanto nei nostri cuori». Spazio protetto e inespugnabile, nel sentire intelligente si attraversa la realtà anche se non c’è salvezza bensì la promessa di qualcosa che arriverà. E infatti arriva, non come aspettativa bensì come desiderio, al netto delle tante retoriche che ancora si avviano su di esso, la lezione di Etty Hillesum insegna che è l’atto stesso del desiderare e non dell’essere desiderate a condurci verso vette di tangibile generatività, sia erotica che gnoseologica. E che ciò è affare dei corpi.
Lo schiudersi che sperimenta verso un «tu» non è allora un impianto teorico qualsiasi appeso all’aspettativa di un’astrazione, ha invece un nome e un cognome. Lo spiega bene anche Karine Baranès-Bénichou nel suo recente volume Etty Hillesum, Charlotte Salomon, Hélène Berr, La vie qui est en elles: La résistance par l'art pendant la Shoah (Éditions Le Manuscrit, pp. 198, euro 19.90) in cui viene imbastito l’incontro mancato tra tre protagoniste del Novecento che, a distanza di poche centinaia di chilometri, hanno fatto della propria forma di espressione una cifra di libertà. Se per la francese Berr si trattava della cronaca durante l’occupazione nazista a Parigi, mentre coltivava il suo amore per il violino, per la tedesca Salomon era la pittura ciò con cui esprimeva sé stessa.
EPPURE HILLESUM rimane colei che desidera tenacemente diventare una scrittrice. Ne è sicura anche Laura Boella che nella nuova edizione del suo Cuori pensanti. Cinque brevi lezioni di filosofia per tempi difficili (Chiarelettere, pp. 144, euro 15) dedicato a Hannah Arendt, Simone Weil, Edith Stein, Maria Zambrano, amplia proprio la sezione riguardante Etty facendo il punto su questo esercizio di passione per la libertà. Dapprima inermi e timide, le mani di Etty si trasformano in caotiche vertigini, poi in possesso e impulso di nascondersi agli altri. Lavora nell’incastro di «blocchi di granito», nel pericolo che tutto sia insipido riflesso indifferenziato, la potenza le arriva invece dal cedimento e dalla costante raccolta, ogni volta.
«L’io che scrive il diario – dice Boella - si rivolge sempre ad altro: l’altra sé stessa, la sofferenza degli altri, il futuro, un tu che è Dio». Ed è questo il rintocco di cui vuole dire Hillesum: «Devi descrivere la realtà concreta, terrena, e illuminarla con le tue parole, con il tuo spirito affinché l’anima che sta dietro alle cose venga evocata. Se alludi direttamente alla cosiddetta anima, allora ogni cosa diventa troppo vaga, troppo informe».
Talmente delicate quelle mani, eppure così piene di voci da averla resa una scrittrice mentre si domanda se lo diventerà mai, un giorno a venire.

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