CULTURA

Uno scrutatore di latenze testuali

Filologo per elezione, materialista per vocazione, il critico italiano è stato l’allievo più importante di Debenedetti
MASSIMO RAFFAELI

Il lavoro critico di Mario Lavagetto è già all’origine uno straordinario paradosso: colui che sarebbe divenuto un teorico della letteratura di rango internazionale (e ufficialmente titolare per decenni di una cattedra di Teoria della letteratura) non era affatto uno studioso dottrinario, né era disposto a trattare i referenti di un amore longevo (i grandi narratori francesi dell’Otto/Novecento, da Stendhal a Proust, gli ex lege italiani mai canonizzati come Svevo e Saba) alla stregua di pretesti o di esemplari utilizzabili per un disegno che li trascendesse e dunque, in cuor suo, li profanasse. Non è un caso che Mario Lavagetto non sia stato nemmeno sfiorato dalla vague dello strutturalismo, che nei pieni anni sessanta tendeva a chiudere i testi in un algido diagramma per isolarli dalla storia e dagli stessi fatti della vita. Viceversa lui, il maggiore allievo di Giacomo Debenedetti, amava attenersi all’insegnamento primordiale della filologia che è l’amore del testo e però un amore vissuto con perfetta sobrietà e senso di responsabilità.
LAVAGETTO NON SCRIVE note a piè di pagina, la sua sterminata plurilingue conoscenza delle letterature lo porta ad assorbire e metabolizzare una materia ingente che viene restituita al lettore nella sua essenzialità ed economicità, per quel tanto che è necessario: basterebbe, a titolo di esempio, il caso di Stanza 43. Un lapsus di Marcel Proust (Einaudi 1991), vertiginoso esquisse di poche decine di pagine dove una nebulosa ermeneutica che non ha pari nell’ultimo secolo viene attraversata, filtrata, e infine convogliata in uno sguardo che scruta da vicino, senza più diaframmi, la massima espressione romanzesca del Novecento. Ciò vuol dire che Lavagetto non fa un uso cerimoniale e meno che mai intimidatorio della tradizione ma, al contrario, opta per un suo utilizzo critico.
Dal grande maestro ha peraltro dedotto la facoltà di narrare criticamente, smarcandosi dal cerimoniale accademico come da una saggistica asfissiata da metodiche tanto più rigide quanto più fragili nel loro fondamento, come nel caso della ermeneutica di conio francese negli anni novanta, talora divenuta una vera e propria glossolalia: Lavagetto non sente neanche il bisogno di rivendicare il suo close reading perché l’ha già reso evidente con la splendida versione de Il rosso e il nero (1968), con tutta una serie di curatele per i «Grandi Libri» di Garzanti (per tutti gli amatissimi librettisti d’opera Arrigo Boito, poi De Roberto, i Goncourt) e con alcune introduzioni, fra gli altri di Calvino, del medesimo Debenedetti e di Francois Rivière, il leggendario editor della N.R.F. (Proust e Freud, Pratiche 1985) cui lo accomuna una precisione analitica di impronta cartesiana che nel tempo sarebbe divenuta, per i lettori e gli studiosi, inconfondibile.
C’È UN TITOLO, fra i suoi maggiori, che ne rappresenta l’attitudine come un à la manière de, ed è Lavorare con piccoli indizi (Bollati Boringhieri 2003), dunque interrogare il testo da una serie di parzialità (parole-chiave, ricorrenze, lapsus) che accedono, nella interpretazione, alla totalità di un testo, ovvero al disegno di una fisionomia d’autore. Se è un filologo per elezione, Lavagetto è un critico materialista per vocazione e il suo interpretare non corrisponde a compulsare la pagina ma, ancora una volta, a interpellarla per tornare di nuovo a visitarla: nell’ultimo libro a stampa, Oltre le usate leggi. Una lettura del Decameron (Einaudi 2019), non disdegna infatti, con umiltà e grande onestà intellettuale, di riandare alle pagine pionieristiche di Francesco De Sanctis ovvero alla lezione secolare di Sigmund Freud di cui pure ha dato specifiche edizioni (su tutte i Racconti analitici, Einaudi 2011) sempre utilizzandone con la dovuta misura gli apporti metodici.
AMAVA ANCHE DIRE che il vero piacere del testo non consiste certo nella sua degustazione ma in una osservazione così puntuale da rendere visibile ciò che, se pure in evidenza, fino a un attimo prima non lo era. E se Maurice Blanchot aveva detto infinito l’intrattenimento indotto dal testo, non esclusi i suoi effetti di deriva, Lavagetto gli opponeva mutamente non solo la costanza della osservazione ma la capacità di vedere quello stesso testo dislocato nello spazio e nel tempo.
Percò il solo nome che è lecito accostargli è quello di Aby Warburg, proprio per la innata facoltà di mediare spazio e tempo, di cogliere nell’hic et nunc di un dettaglio il lungo periodo della tradizione e, all’opposto, di estrarre da un archetipo tutta una serie di occorrenze al presente (e qui va aggiunto che un altro termine da lui prediletto è «palinsesto», che bene indica da un lato la stratificazione diacronica e dall’altro una evidenza sincronica): si potrebbe anche aggiungere che il suo Palazzo Schifanoia è stata appunto la Recherche, su cui è tornato un’ultima volta in Quel Marcel! (Einaudi 2011), altro punto fermo della sua bibliografia.
PUR NON ESSENDO STATO un critico militante, Mario Lavagetto dei critici militanti è sempre stato un essenziale punto di riferimento, come testimonia, tornasole di un momento drammatico, il piccolo aureo volume Eutanasia della critica (Einaudi 2005) dove si legge una pacata, ma durissima nella sostanza, requisitoria al cospetto di un’industria culturale che ha fatto egemone la letteratura di genere o di evasione e ha resa inattiva, oramai liquidata, la nozione stessa di critica insieme con la pratica, individuale e sociale, dell’interpretazione.
Al riguardo, scrive nel suo stile limpidissimo: «Uno dei principali elementi di fascino del testo letterario consiste proprio nel non lasciarsi mai ridurre a una sola, onnicomprensiva e definitiva, interpretazione: perché i grandi testi non vengono uccisi dall’ermeneutica, se mai ne sono arricchiti e amplificati». Più unico che raro, è il dono che ci viene da chi riesce a vedere quanto si nasconde nella superficie delle parole.

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