CULTURA

Parabole politiche per leggere il presente

A proposito di «Filosofia della resistenza. Antigone, Elettra e Filottete»
ALESSANDRA PIGLIARUfrancia

Era un martedì il 4 dicembre del 1934, quando Simone Weil, venticinquenne, varcava la soglia delle officine elettromeccaniche Alsthom, nella periferia parigina, dando inizio alla sua vicenda operaia fino ad agosto dell’anno successivo. Una circostanza che le avrebbe fatto toccare con mano la violenza capitalista, un lavoro senza scampo di cui si era già occupata proprio nel saggio del ’34 Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale. Il significato di quei mesi, insieme a lettere e appunti, pubblicato postumo nel 1951 da Gallimard, è al centro de La condizione operaia in cui compare la grandezza di una filosofa radicale, scrittrice, poeta, mistica, di origini ebree e cristiana in attesa di Dio, sorella degli ultimi della terra. Del resto, ciò che ci ha allenati a vedere – per esempio nelle intuizioni sulla Germania totalitaria e poi sull’hitlerismo - non lo avrebbe potuto restituire se non con quel potere dell’attenzione che tanto ha cercato di tenere accanto e sempre, rammentandone «la forma più pura e rara della generosità». «Le ingiustizie sociali l'avevano commossa fin dall'adolescenza e l'istinto l'aveva condotta vicino ai diseredati – racconterà di lei Albertine Thévenon -. La sua vita ha trovato la propria unità nella durata di quella elezione».
SINDACALISMO rivoluzionario, antistalinismo, spirito antiautoritario e conflitto insanabile con il Partito comunista, accanto al fervore politico, a questa passione per la realtà e i viventi, si accosta l’amore incondizionato verso la cultura classica. L’intersezione tra condizione umana e operaia, lavoro, giustizia, miseria, libertà è dunque variamente depositata, lungo il corso della sua intera esistenza, a più riprese. Sul tema, La rivelazione greca (Adelphi, 2014, a cura di Maria Concetta Sala e Giancarlo Gaeta) è stata la prima raccolta organica di scritti in traduzione italiana (articoli, commenti, appunti e lettere). Ad aprire quel volume erano tre esperimenti che nel 1936 Weil scrisse a proposito di altrettante tragedie sofoclee. Ora, per Il Melangolo, escono in una forma conchiusa dal titolo Filosofia della resistenza. Antigone, Elettra e Filottete, con la preziosa cura di Francesca Romana Recchia Luciani (pp. 123, euro 10, traduzione di Alasia Nuti) che firma una introduzione importante, disponendo i testi in dialogo tanto tempestivo quanto necessario, con lo stesso compito dell’essere filosofa per Weil: portatrice d’acqua, nutrimento di pensiero che non può prescindere dal presente e dalla materialità.
Il punto della ricognizione, ancora una volta, è il nesso tra la condizione operaia e quella umana rendendoci imperdibile la letture delle tre tragedie sofoclee rivolte a lavoratori e lavoratrici delle fonderie Rosières (solo Antigone è stata pubblicata nel giornale di fabbrica, Entre nous, diretto da Victor Bernard che non concesse però quella di Elettra e Filottete a causa dell’appoggio di Simone Weil agli scioperi operai nel giugno 1936). Di questo trittico – che Recchia Luciani descrive indispensabile e cruciale, sia ontologicamente che eticamente, nel ritessere il nostro stesso essere nel mondo – possiamo appropriarci, giacché anche nella incompiutezza non si tratta di scritti d’occasione bensì di formazione. Per la filosofa e per chi li legge.
FORMULA INDOVINATA espungerli per avvertirne ancora di più l’universalità «di chi lotta e soffre», anche Sofocle si rivolge a loro e le parabole condivise da Weil diventano tali nella scelta di emendare alcune parti delle storie e farne risaltare delle altre. Non è però un esercizio meramente didattico e non è neppure un caso che vengano scritte nel periodo conclusivo alla Alsthom; difficile decifrarne il segno preciso senza avere accanto almeno il suo Diario di fabbrica (pubblicato a sé stante cinque anni fa per Marietti 1820, a cura di M. C. Sala e G. Gaeta) ma anche L’Iliade o il poema della forza (l’edizione autonoma più recente è del 2012, a cura di Alessandro Di Grazia nella traduzione di Francesca Rubini per Asterios). Nella mappa di connessioni possibili, le figure che Simone Weil sceglie per proseguire la relazione con la classe operaia sono esemplari e magistrali.
COSA HANNO A CHE FARE però con il lavoro industriale Antigone, Elettra e Filottete? Tengono insieme l’umanità, di cui quella operaia, per dirla con Recchia Luciani è sia metonomia che sineddoche. E si fornisce anche al termine «resistenza», scelto nel titolo, non la saldezza di una posizione eroicamente vivibile bensì la nominazione intima e plausibile di cosa significhi l’atto del resistere, del non cedere, sia pure nella assoluta solitudine, prima ancora che il discorso diventi collettivo, nella costrizione della fame, infine nell’abbandono e nell’intervento di altri nonostante nel frattempo si siano perdute le energie sufficienti per considerare la propria vita degna di essere vissuta. Simone Weil vuole parlare con chi conosce i morsi, non metaforici, di questo disastro. Tutta la costellazione dunque in cui sono state rilette le tragedie durante il Novecento del secolo scorso (con particolare attenzione ad Antigone), non perde di complessità nel riassunto che ne fa Weil bensì acquista immediata consistenza, una presenza senza cui il «talmente umano» non avrebbe ragion d’essere; l’espressione compare nel breve prologo dedicato alla abitante di Tebe che vuole sì seppellire il proprio fratello dando lezione di differenza tra il potere scellerato e la legge del cuore, del coraggio, esiste una discrasia tra diritto e giustizia.
INSOMMA, la riconosciamo, Antigone, ma quella di Weil ha la potenza sorgiva, e profondamente sofoclea, di saper anche vacillare. Non su ciò che sente ma per dare seguito alla propria autenticità. Mostrando che essere schiacciate non è sempre sinonimo di resa, è piuttosto la conseguenza di un tempo che non conosce comprensione. Così sola, coraggiosa nella sua ossessione, Antigone. Ma anche così innamorata e rinchiusa. Fino a decidere di morirne.
Allo stesso modo Elettra, nell’attesa del fratello Oreste, non incontra ancora le Erinni – né mosche, nella lettura che ne ebbe a dare Sartre - ma solo vendetta come digestione della collera. È un processo fisico e passionale della fame che attraversa lo sfinimento, come quello che incontriamo nel suo Diario di fabbrica, intravisto tra gli operai e le operaie elencati con nomi reali o di invenzione fin dalle prime pagine e in cui svettano anche «personaggi», così li sistema. Anche i calcoli non tornano come si immaginerebbe, ci si sbaglia, nel conteggio delle strisce di rame o i circuiti magnetici alla Alsthom, e intanto il corpo si piega. Bisogna riaprire la voragine, allora; consentire in questo tempo ingrato e in cui sembra esista il pericolo di una impraticabilità del mondo, ostinarsi a segnalare da un lato il produttivismo esasperato e dall’altro una strada per continuare a pensare insieme la bellezza lancinante di ciò che è. Simone Weil risponde a molti di questi bisogni, sono dell’anima e ce lo ha insegnato sempre lei.
È SOLO UN FRAMMENTO, Filottete, la storia di un uomo «malato e senza risorse», eppure contemplarlo adesso acquista una attualità sorprendente, quando ci si domanda per quale ragione la pandemia che stiamo vivendo (Weil visse la Spagnola, in ben altro contesto, da fragile come era) da esperienza che dovrebbe riguardare tutti e tutte allo stesso modo sia paradossalmente esperienza di abbandono, di uno scollamento definitivo, gli uni dagli altri, insieme alla moltiplicazione della disumanizzazione, di cui fanno parte le diseguaglianze e la vulnerabilità dei corpi, sapessimo tenerle insieme entrambe: «Questo dramma è molto vicino a noi. Certo, dopo così tanto tempo, non si abbandonano più le persone su un’isola deserta. Ma non c’è bisogno di essere su un’isola deserta per essere abbandonati. Ai giorni nostri, quanti esseri umani muoiono in modo oscuro di miseria e di umiliazione, talvolta nel bel mezzo di una grande città. Le loro morti sono contate nelle statistiche; qualche volta, se si sono suicidati, si accorda loro qualche riga tra le altre notizie. Ma ciò che ha attraversato le loro menti e i loro cuori, nessuno se lo domanda. Si preferisce non pensarci».
Impossibile non andare con la mente a quanto scrive pochi anni dopo nella sua Iliade riguardo la forza come «l’imperio freddo» e l’amarezza che rende l’essere umano «addirittura incapace di sentire la propria miseria. La forza posseduta da altri, - continua Weil – domina l’anima al pari della fame estrema, dal momento in cui si afferma come un potere perpetuo di vita e di morte (…) Il più debole, ovunque si trovi, anche nel cuore di una città, è altrettanto solo, se non di più, di chi si trova in mezzo a un deserto».

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