VISIONI

Davide Ferrario, questa epidemia accelera dei processi già in atto

La chiusura dei luoghi di cultura, il set del nuovo film durante la seconda ondata. Conversazione col regista
SILVIA NUGARAITALIA/Torino

Strano per un regista tornare sul set nei giorni in cui chiudono cinema e teatri. È quel che è capitato a Davide Ferrario (Materiale resistente; Dopo Mezzanotte) che in questi giorni è a Torino per la lavorazione di una commedia generazionale che avrà come protagonisti Marco Paolini, Giovanni Storti, Giorgio Tirabassi e Neri Marcoré e la colonna sonora firmata da Mauro Pagani. «Vivo una situazione paradossale – spiega – Al momento le produzioni sono considerate attività essenziali ma le opere finite non possono essere viste dagli spettatori. Faccio un film che in questo momento non potrebbe essere proiettato e mi chiedo perché lo sto facendo? Per chi?».
La scorsa settimana, Ferrario ha affidato alle pagine di Torino del «Corriere della sera» una riflessione amara sulla situazione della cultura in tempi di pandemia in cui sostiene che la cura anti-covid avrà il «merito» di portare a termine una strategia già in atto di eliminazione di un altro virus, quello della cultura.
La sua è l’ironia della disperazione?
In un certo senso sì. Quell’articolo era una provocazione alla Swift per dire che l’epidemia sta accelerando processi e tendenze già in atto: la divisione della società in chi sta bene e chi sta male, in chi ha e chi non ha. In ambito culturale stiamo scontando i danni di una strategia politica che mi ha fatto sempre molto arrabbiare e che è stata portata avanti anche da amministrazioni di sinistra: l’accorpamento tra cultura e turismo. È sempre stata una maniera elegante di sostenere che «con la cultura non si mangia», nota formula di Tremonti. È come dire che la cultura esiste solo se produce una ricaduta materiale ed economica immediata sul territorio. Ora che non c’è più il turismo, chiudiamo tutto e lasciamo che, darwinianamente, solo i più tutelati sopravvivano e gli altri vadano alla deriva.
La chiusura delle sale mette dunque il dito sulla mancanza di riconoscimento del lavoro culturale?
Sì, la situazione di chi lavora nella cultura è una strutturale mancanza di tutele. Finché c’è mercato, una certa informalità può far comodo perché non si pagano le tasse. Poi però quando arrivano situazioni come questa non si sa di cosa vivere e ci si chiede a che cosa serve la cultura. Ci migliora, ci educa, nutre la nostra coscienza e quindi va sostenuta oppure è un’attività che esiste solo se genera profitti?
Durante il lockdown, alcuni dei suoi film sono stati resi disponibili in streaming, per esempio sul sito di Lab80. Lo streaming può essere una forma di resistenza del cinema?
Penso proprio di no ma il discorso è diverso per film vecchi e film nuovi. Per i film del passato è meglio che qualcuno li veda piuttosto che tenerli lì. Per i film che escono ora o che devono essere finanziati è diverso. Internet non ha mai fornito una risposta davvero adeguata alla creatività di base.
E che ne dice dei festival cinematografici online?
Mi rendo conto che il mondo e il cinema stanno cambiando quindi ultimamente avevo ideato con Franco Arminio un progetto per doppia piattaforma, «Nuovo cinema paralitico», una specie di viaggio in Italia da Nord a Sud attraverso una serie di brevissimi video girati con una piccola troupe. Una parte sono sul sito del «Corriere», l’altra pensavamo di utilizzarla per un’opera completamente diversa, da sala cinematografica, che avremmo voluto mostrare in anteprima al Torino Film Festival. Ora il Festival va online e ci ritroveremo a mostrare in streaming un lavoro che era stato concepito per la sala, è paradossale.
Ritiene che per i festival in certi casi sia meglio «saltare un giro»?
Mi rendo conto che reagire e resistere è importante. Forse però la pandemia ci porta a recuperare un senso del limite. Per la prima volta dal ’89 il capitalismo sta incontrando un nemico più forte di lui e non andrebbe sprecata l’occasione di ripensare al modo in cui viviamo, soprattutto al modo in cui vive chi crede che tutto sia possibile e che le risorse siano illimitate.
Com’è la lavorazione di un film in tempi di pandemia?
È strana. Ho una troupe piuttosto grossa e sento che alla fine del film ne conoscerò solo la metà perché i volti sono a mala pena riconoscibili dietro le mascherine. Poi, è come stare in una bolla all’interno di un’altra bolla. La città intorno sparisce. Con la chiusura dei locali alle 18 si riescono a girare scene altrimenti impossibili e alle 23 si torna a casa, si leggono le cifre terribili dei contagi, le notizie sugli attentati terroristici e si accentua la sensazione di separatezza del set dal resto del mondo. È una bolla protettiva ma anche una prigione.
I protocolli di sicurezza incidono sulla messa in scena?
Dato che sto girando una storia contemporanea, prima di iniziare mi chiedevo che tipo di oggi avrei raccontato. Al momento l’oggi sono i locali chiusi, le mascherine, il plexiglas ed è come se il virus si portasse via tutto il tuo immaginario, è talmente invadente che diventa il protagonista di qualsiasi racconto. Alla fine, abbiamo deciso di ambientare il film nel 2019. Però, ogni volta che allarghi il campo, i segni dell’epidemia rischiano di emergere. Finché durerà questa situazione i parametri del «realismo» saranno costretti a ignorare la realtà presente. In fondo, i bei film sui grandi eventi storici si realizzano quando è possibile una distanza critica dai fatti che ti permetta di dominarli e rappresentarli. Molte fotografie significative del primo lockdown sono state scattate da persone che erano lì per caso, non da fotografi. Dare una rappresentazione autoriale delle cose necessita tempo.

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