CULTURA

Nell’officina dei giuristi antichi per decifrare l’oggi

«L’ISTITUZIONE DELLA NATURA», DI YAN THOMAS E JACQUES CHIFFOLEAU
MARCO PACIONIITALIA

Se anche la semplificazione e la riduzione delle norme amministrative deve passare attraverso la creazione di percorsi legislativi e l’istituzione di appositi organi che promuovono e applicano le nuove disposizioni, allora vuol dire che la matassa delle regole e dei passaggi è destinata a crescere e a ingarbugliarsi sempre di più, anziché diminuire. Dal punto di vista del diritto, una delle caratteristiche più eclatanti delle nostre società è quella del ricorso iperbolico alla produzione di nuove norme.
LA MACCHINA legislativa sembra preda di un inesauribile desiderio di disciplinare tutto quello che accade e di precisare ulteriormente le regole già esistenti. Ovviamente, a soddisfare tale inappagabile desiderio disciplinante non bastano le leggi ordinarie. Di qui il ricorso, ormai secolare, anche alla legislazione eccezionale – vedi ora in Italia la reiterazione dello stato d’emergenza motivato dalla pandemia. Che cosa c’è dietro questa inesauribile produzione di norme e l’implicita ammissione della loro impotenza a disciplinare la realtà, la vita, la natura che dunque necessiterebbero anche dell’eccezione?
IMPORTANTI ELEMENTI che ci permettono di rispondere a questi e ad altri paradossi della legge sono quelli acquisiti dagli studi dello storico francese del diritto romano Yan Thomas (1943 – 2008). Ultima in ordine di tempo è la traduzione italiana di un suo testo pubblicato insieme a quello di un altro studioso francese, Jacques Chiffoleau, L’istituzione della natura (a cura e con un saggio di Michele Spanò, Quodlibet, pp. 124, euro 15). Nel suo scritto Thomas spiega che nella Roma antica la dimensione artificiale del diritto faceva ricorso selettivo alla dimensione naturale della vita. Più precisamente, ogni volta che voleva estendere il suo dominio sulla realtà, la legge ricorreva per analogia alla natura. Nel ricorrervi caso per caso, per stabilire una norma, la legge finiva così per istituzionalizzare in modo empirico la natura stessa. In altre parole, per formulare una regola, era diventato tradizionale poter fare riferimento al presunto ordine naturale, senza che ciò comportasse porre la natura medesima a fondamento di tutto il diritto. Anziché essere un limite reale e temporale alle costruzioni del diritto, nella Roma antica la natura era lo strumento per forzare i limiti e imporre il suo ordine artificiale a tutto.
Con il cristianesimo, già in età tardoantica e vieppiù nel corso del medioevo, la natura è venuta progressivamente affermandosi come realtà oggettiva esterna e limitante le fabbricazioni del diritto. Sulla scorta di Thomas, lo scritto di Chiffoleau mostra come alla natura non si poteva più ricorrere solo quando la legge sembrava aver esaurito tutte le altre risorse, per creare nuove norme. Creata da Dio, la natura stessa esprimeva un ordine che non tollerava gli utilizzi parziali dettati dalla necessità del caso. Con il cristianesimo, a essere illimitato non era più il potere della legge, ma quello della natura stessa, di Dio. Era questa a essere sovrana sul diritto, perché veicolo per eccellenza della maestà di Dio.
IN QUANTO CREATA, oltre a essere sovrana, la natura era considerata essa stessa un miracolo. Quest’ultimo, per essendo eccezionale, non era da considerarsi come qualcosa di completamente estraneo alla natura. Il miracolo si configurava come il rinnovarsi dello stesso evento eccezionale della divina creazione dal nulla della natura medesima.
Uno degli aspetti più interessanti dello scritto di Chiffoleau è quello di sottolineare come nel passaggio dalla dimensione onnipervasiva dell’ordine artificiale del diritto antico a quella naturalistica del diritto cristiano, la sovranità e la maestà non solo non diventano esterni alla legge e slegati dalla sua autorità soggettiva ma si radicano a un livello ancora più profondo, diventando fondamento che tiene insieme norma e eccezione, legge e natura indistintamente.
È così che alla «giuridificazione» della natura e della vita nell’antichità, si è venuta a sostituire una speculare naturalizzazione della legge che ha comportato soprattutto l’abnorme crescita a rendere soggetto di diritto tutto, persino il diritto stesso. A questa tendenza all’ipertrofica estensione del diritto soggettivo a tutte le entità e soprattutto agli effetti collaterali che ne rovescerebbero gli obiettivi desiderati, in particolare per ciò che concerne le persone e l’ambiente, è dedicato l’importante saggio finale del curatore Spanò, che apre nuove vie per una radicale riconsiderazione delle forze che operano sulla vita e la legge.

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