CULTURA

Spazi e conflitti. A proposito di «lavoro ambulante e diritto alla città»

«VIVERE NON È REATO», A CURA DI GENNARO AVALLONE E DAOUDA NIANG (EDITO DA OMBRE CORTE)
FRANCESCO ANTONELLIITALIA

Uno dei compiti principali della sociologia critica è dare voce a quei soggetti marginalizzati dalle dinamiche di esclusione della società contemporanea e del capitalismo, in modo da favorire sia la loro presa di coscienza che la loro emersione nello spazio pubblico.
Una tale operazione, inoltre, può favorire la messa in moto di quelle potenzialità di trasformazione ed emancipazione che la marginalità e l’invisibilità sociali portano spesso con loro, a patto che gli «oggetti» dell’indagine sociale ne diventino anche i «protagonisti» attivi. Entrambi questi intenti critici muovono il bel libro curato da Gennaro Avallone e Daouda Niang Vivere non è reato. Lavoro ambulante e diritto alla città (ombre corte, pp.135, euro 12,00).
FRUTTO DI UN PROGETTO di ricerca dell’Università di Salerno che ha messo al centro la discussione e la partecipazione di attivisti e ambulanti alla realizzazione dell’indagine come alla scrittura dei saggi contenuti nel libro, il volume offre, innanzitutto, uno sguardo approfondito e lontano dalle retoriche dominanti sulla città contemporanea e sul rapporto che essa costruisce con il lavoro, la precarietà, l’immigrazione e le dinamiche di marginalizzazione.
Come categoria analitica prima che come realtà effettuale, la città contemporanea si definisce, tra le altre cose, in termini prevalentemente securitari all’interno di un capitalismo della sorveglianza che, oltre i confini della Rete, separa e stigmatizza tutti i soggetti e le forme di economia non immediatamente rientranti nel suo progetto di normalizzazione e addomesticamento: i lavoratori ambulanti, la cui grande maggioranza è formata da immigrati provenienti in particolare dal Senegal e dal Marocco, costituiscono così una delle componenti fondamentali delle «nuove classi pericolose»; da criminalizzare e a cui sottrarre, poco a poco, spazio e legittimità sociale.
Da qui, la forza evocativa della rivendicazione del «diritto alla città» che significa, per questi soggetti e più in generale per noi tutti, mettere in campo delle azioni conoscitive e, al tempo stesso, emancipative, di ricostruzione della cittadinanza nei luoghi concreti del vivere, che i vari saggi contenuti nel libro aiutano bene a mettere a fuoco. Innanzitutto, la de-costruzione dei processi di stigmatizzazione ed etichettamento che passano per espressioni degradanti come «vo’ cumpra» (Zakaria Sajir).
IL RICONOSCIMENTO del lavoro ambulante come un elemento importantissimo dell’economia popolare contemporanea; cioè costruita sulla reciprocità e in grado di raggiungere bisogni ed esigenze dei ceti popolari, rappresentando anche un elemento di resistenza al capitalismo globale (Yoan Molinero Gerbeau). Il prendere consapevolezza che il lavoro ambulante, sebbene segnato anche da informalità, si muove all’interno di un contesto di piena legalità, anche fiscale, nel momento in cui senza la regolarità non è possibile ottenere i permessi di soggiorno (Martina D’Amato; Ndèye Isseu Ly).
Il comprendere non solo che la presenza delle micro-imprese degli ambulanti costituisce un elemento importante dell’economia del Mezzogiorno d’Italia; ma anche essere in grado di leggere nella contrazione progressiva degli spazi pubblici e sociali riservati agli ambulanti e nella loro stigmatizzazione in città come Salerno (Marianna Ragone) e Napoli (Pierre Preira; Yasmine Accardo, Tran), i segni deteriori di incerti processi di gentrificazione e della crisi sociale oggi resa più acuta dalla pandemia in corso.
ALLA NECESSITÀ di elaborare adeguate risposte politiche è dedicato l’ultimo saggio del libro nel quale il lavoro collettivo di ricerca e di ascolto porta ad una richiesta che investe non solo la vita dei lavoratori ambulanti ma centra una questione fondamentale per noi tutti: il diritto ad avere un riconoscimento sociale e dunque pieno diritto di cittadinanza soprattutto all’interno di quegli spazi urbani che, sempre di più, il capitale cerca di riassorbire all’interno delle sue logiche. Dalla città normalizzata e securitaria occorre dunque riscoprire la città come nuovo spazio del conflitto e dell’emancipazione.

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