COMMENTO

Il tramonto della democrazia liberale

Trump/Biden
LUCA CELADAUSA/Cleveland

Al termine di un anno concitato e straordinario con una pandemia fuori controllo, ondate di mortifera violenza razzista e una mobilitazione popolare senza pari negli ultimi 50 anni, gli Stati uniti si avvicinano al voto con un presidente «guastatore» che non ha nulla da perdere e che presiede alle rovine fumanti di una nazione stremata.
La performance di Trump al dibattito-rissa è stato l’ultimo passo in una spirale discendente. Assurto al potere con la minoranza di voti popolari ha cementato un governo minoritario facendo appello agli istinti peggiori della sua nazione, ai fantasmi mai sopiti e agli scheletri che agitano la sua cattiva coscienza. Quei «cadaveri», come diceva James Baldwin, «che continuano a parlare al paese».
ORA CHE SI AVVICINA alla verifica elettorale, il demagogo che si è impadronito del paese con la colpevole connivenza di una plutocrazia sempre più aggrappata a un insostenibile privilegio, sferra il suo attacco alle elezioni stesse. Nelle sue mani la strategia della soppressione dei voti avversari è stata militarizzata con l’obbiettivo dichiarato di sabotare le elezioni.
A reti unificate, dal palco del rito svuotato del dibattito elettorale, Trump ha ancora preventivamente inficiato i risultati che prevedibilmente lo sfavoriranno. «Se perdo sarà stato broglio», ha ripetuto incitando i suoi a riversarsi nei seggi per «impedire la frode».
Una strategia di terra bruciata così abbondantemente annunciata e negli ultimi mesi e settimane, che viene da chiedersi da dove venga lo scalpore proclamato sulle prime pagine americane. Delegittimare il voto è l’unica via per arraffare un ulteriore quadriennio che siglerebbe con ogni probabilità la fine dell’«esperimento americano» come democrazia plurale, riconducendo fatalmente il paese verso il lato oscuro delle sue origini violente, dei peccati sempre riaffioranti nella sua storia. Mai prima così vicini a un sopravvento definitivo.
NEGLI ULTIMI VENT’ANNI i repubblicani hanno vinto una sola volta il voto popolare. Da tempo ormai «pilotare» il voto è l’unica modo di vincere per un partito repubblicano condannato alla minoranza dalla realtà demografica. Ma come ha scritto Jim Rutemberg sul New York Times a proposito dell’accusa di brogli, «Trump ora ha a disposizione tutta la forza del governo americano – i suoi procuratori, il servizio postale, perfino le forze armate – a servizio di una calunnia usata per privare del voto i cittadini sin dai giorni più scuri della repubblica». L’ha usata per svuotare dall’interno istituzioni e ministeri dati in mano a banchieri, lobbisti e fanatici religiosi e per blindare la corte suprema. Resta ora solo da completare l’opera col sabotaggio programmato del processo elettorale: il tramonto della «massima democrazia occidentale».
PER GIUNGERE SULLA SOGLIA di questo colpo di mano Trump ha seguito il copione dei fascismi penetrati «legalmente» nelle democrazie liberali in crisi sotto copertura di istanze populiste. La deriva autoritaria, xenofoba e razzista ha visto bambini ingabbiati, gulag di immigrati e sterilizzazioni delle detenute, polizia segreta dispiegata contro manifestanti la decostruzione dello stato sociale e di diritto – l’istituzionalizzazione della retorica e dell’estremismo appannaggio prima d’ora solo dei J Edgar Hoover, dei Joe McCarthy e dei George Wallace, dei fascismi americani sempre ricorrenti ma mai del tutto come oggi imperanti.
Dei molti scenari catastrofici che si prospettano, l’unico a cui si può ancora votare il 55% del paese che aborre il proprio presidente, è un plebiscito inoppugnabile. Ma anche questo non sarebbe una garanzia in tempo di fake news industriali e di fronte a un elettorato spinto di proposito verso la frenesia paranoica per il complotto dello «Stato profondo». La dissonanza cognitiva preparata con anni di degrado complottista, l’incitamento in diretta delle milizie esagitate, assicurano la profezia auto avverante del caos. Non si esce pacificamente dal vicolo cieco del trumpismo.
CHI C’ERA DI FRONTE a Trump sul podio del dibattito a questo punto ha un rilevanza limitata, il referendum è su di lui. Nessuno vuole rimuovere le colpe dell’establishment democratico e del suo patto con il neoliberismo, ma fondare su questo il proprio voto – o «l’astensione virtuosa» – in questo autunno americano rischia di somigliare all’ignavia. A novembre suona l’ultima chiamata per arginare la prevaricazione di un populismo neonazista che dalla Casa bianca guida un rigurgito globale. E vi sono buoni argomenti per schierarsi con Angela Davis , Cornel West, Alexandria Ocasio-Cortez– e le schiere di progressisti e antifascisti – che voteranno consapevolmente Biden pur senza avallare l’agenda neoliberista dei «moderati» – ci sarà tempo per portare avanti quella battaglia. A partire dal giorno dopo l’insediamento. Sempre che ci si arrivi.
Ai paladini del «tanto peggio, tanto meglio» sottoporremmo l’ascesa di Qanon, le manifestazioni no-mask da Berlino a Roma e simili aberranti metastasi post-politiche, elevate e amplificate dal trumpismo e fulmineamente innestate in Europa e altrove. Il repertorio eversivo globale che emana da un’America fascista. In questo autunno rovente e pregno di cattivi presagi, si giocano molte partite cruciali. Per l’America e per un mondo appeso alle incognite geopolitiche, tecnologiche, ambientali di un crepuscolo liberista. Un mondo che rischia di subire sempre più l’onda d’urto di populismi xenofobi e negazionismi e un rigurgito oscurantista.
MENTRE SCORRONO gli ultimi giorni prima delle cinquantanovesime elezioni della storia americana, prende sempre più corpo il plausibile dubbio che possa essere passato il tempo massimo utile a contrastare l’inevitabile. «Non finisce bene», ha torvamente minacciato Trump. A molti viene in mente There will be blood – il titolo originale del film che Paul Thomas Anderson trasse da un romanzo di Upton Sinclair sull’attrazione fatale del capitalismo per la violenza e la morte.

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