VISIONI

Uso le immagini con ironia per smascherare la repressione

Il nuovo film, «Saint Narcisse», riflette sul narcisismo del nostro presente
SILVIA NUGARAcanada

Regista, fotografo e artista visivo tra i più amati della scena queer internazionale, il canadese Bruce La Bruce (alias Justin Stewart) si è formato negli anni ’70 delle soggettività in rivolta, del cinema underground e delle fanzine autoprodotte. Non è il pornografo a essere perverso… s’intitola un suo corto recente, quasi un autoritratto in forma di omaggio al Rosa von Praunheim di Non è l’omosessuale a essere perverso ma la situazione in cui vive (1971), opera di riferimento di un cinema che critica senza appello i sistemi di potere/sapere che tracciano i confini tra normale e anormale, sano e folle, degno e indegno. La Bruce ha reinventato il punk con la sua radicalità hardcore affermandosi come punto di riferimento di un’estetica sovversiva e cinefila che esplora la materialità politica del sesso e della sua rappresentazione senza dimenticare Cocteau, Pasolini, Warhol, Jarman, Anger.
E neppure Freud la cui concezione di desiderio perverso e polimorfo innerva tutta la sua opera, dai primi super 8 fino a Gerontophilia (2013). «Sono più freudiano che junghiano e ho studiato i post-freudiani, da Melanie Klein a Lacan» ci dice collegato via Skype dal bagno di casa con addosso i suoi iconici occhiali fumé e una t-shirt di Tom of Finland. Dopo i notevoli gay zombie movie Otto; or, Up with Dead People (2008) e L.A. Zombie (2010), l’ultimo film Saint Narcisse, presentato a Venezia fuori concorso alle Giornate degli Autori, prosegue la riflessione sull’implosione narcisistica del soggetto nella società dei consumi riuscendo, con ironia, a trovare una via per smarcarsi da quel dilemma tra normalizzazione e antisocialità che fende il movimento LGBTQI+.
È la storia di un motociclista innamorato di se stesso che affronta due rivelazioni: l’esistenza di una madre che credeva morta e di un fratello gemello. Alla vista del fratello, se ne innamora al punto da escogitare un piano per liberarlo dalle grinfie del monaco sadico che lo tiene chiuso in convento.
Perché ha ambientato un film su un fenomeno così attuale come il narcisismo negli anni ’70?
In Saint Narcisse volevo affrontare le storture della cultura del selfie con una rivisitazione contemporanea del mito di Narciso, come Cocteau aveva fatto con l’Orfeo. Ma il narcisismo è così radicato nelle nostre società che lo straniamento temporale mi è parso necessario per rendere il film più incisivo. Quando mostro il protagonista che si scatta delle polaroid e le distribuisce per strada, metto in rilievo l’assurdità del condividere le proprie foto sui social che alimentano in noi una vanità ridicola. Poi il mio è anche un omaggio a un certo cinema anni Settanta, al De Palma ossessionato dall’incesto di Complesso di colpa (1976) oppure a Act of the Heart (1970) di Paul Almond, che mi ha segnato. In una scena, Geneviève Bujold e Donald Sutherland fanno sesso sull’altare di una chiesa poi lei, che è religiosissima, presa dai rimorsi, sale su una collina e si dà fuoco. Mi ha sempre fatto pensare a come la religione possa essere morbosa, con preti e fedeli obbligati a reprimere la propria sessualità al punto da non poterle dare altra forma che la mostruosità.
Lei ha avuto un’educazione religiosa?
Non proprio. Eravamo noiosissimi protestanti e quando andavamo in chiesa, mio padre, coltivatore, si addormentava. Invece il cattolicesimo mi è sempre parso così glamour e barocco, con quelle vite dei santi piene di feticismo ed estasi sessuale.
Il suo cinema ironizza su ciò che la società ritiene perverso, anche l’incesto: perché?
Affronto romanticamente fenomeni ritenuti perversi o disgustosi per smontare pregiudizi e aprire alla complessità. Per esempio, trovo che i feticisti siano persone con una devozione spirituale per l’oggetto d’amore e quasi le invidio per la loro religiosità. Inoltre, m’interessano i tabù e l’incesto è un tabù per eccellenza. Provocatoriamente, mostro che il twincest, l’incesto tra gemelli codificato come genere nel porno gay, è in fondo socialmente accettato in una società narcisista come la nostra. Ma tratto anche di forme più simboliche di incesto come quella tra mentore e discepolo che nasce da tensioni e desideri diffusi. Ora, il tabù dell’incesto è comprensibile per ragioni sociali e biologiche ma la vergogna e la colpa, a cui la Chiesa contribuisce, reprimono e rendono perversi pensieri che invece andrebbero elaborati e su cui il film vuole far luce. Io adotto l’ironia e la parodia come forme di disvelamento contro la repressione.
I suoi film ripropongono una certa mitologia gay calata nel cinema di genere.
Saint Narcisse è, tra le altre cose, un lavoro sull’iconografia di San Sebastiano, il «Cristo gay» che incarna la tortura d’amore emblematica della mitologia queer. Quando uscì Sebastiane di Jarman, ero un ragazzino e il film non mi piacque ma oggi lo adoro. Poi ho reso piccoli omaggi anche al Pasolini di Teorema e alla mitologia classica, per esempio facendo incarnare a una persona trans il ruolo di messaggero che nel mito di Eco e Narciso è Tiresia, figura di genere mutante.
Lei è stato uno dei creatori della scena queercore: che cos’era e cosa ne resta?
Negli anni ’80 a Toronto lasciai il mondo gay mainstream perché era misogino e razzista. Il punk sembrava più vivace e inclusivo anche se poi ho scoperto quanto fosse omofobo. Con fanzines come «queercore» e «J.D.s» che realizzai con G.B. Jones, film underground queer e hardcore creammo una scena punk alternativa – il queercore o homocore – per esprimere la nostra dissidenza sessuale e di genere senza rinnegare elementi della «vecchia scuola» gay perché mi ha sempre interessato l’omosessualità nella storia del cinema e dell’arte. La mia estetica e la mia politica nascono allora, criticando tanto la sinistra quanto la destra. Infatti, uno dei temi che mi interessano da sempre è come l’oppresso diventa oppressore, cosa che riguarda la sinistra contemporanea in America e non solo. Oggi il punk è stato normalizzato e non vedo all’orizzonte un movimento giovanile coeso che sia così radicale sul piano politico ed estetico. Ci sono movimenti antirazzisti e antisessisti importanti ma oggi tutto viene cooptato rapidamente e vedo tra i giovani una tendenza a imporsi molte norme e limiti espressivi.
Anche la pornografia è facile da cooptare?
Dipende da come la si fa. Recentemente ho girato un corto hard con la produttrice post-porno Erika Lust che dà visibilità a corpi e soggetti eccentrici. Si chiama Scotch Egg (2018), mostra le avventure di una donna in un bar gay e ciò è in sé politico per come spariglia le categorie che regolano la sessualità.
A proposito di categorie: che ne pensa della decisione della Berlinale di non suddividere più i premi alla recitazione in base al sesso?
Diffido dei premi e delle loro logiche. Più che il gender conta il genre: come mettere sullo stesso piano attori di commedie e di horror? Come paragonare professionisti e non? Mi si rimprovera spesso la scarsa qualità dei miei attori senza contare che si tratta per lo più di non professionisti da me costretti a parlare in inglese anche quando non è la loro lingua. Tenendo conto di questo le loro performance sono fantastiche. I premi sono un’istituzione che ha a che fare più con l’ego che con l’arte.

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