COMMENTO

Un voto di paura ha riportato i 5S al centrosinistra

Toscana
ANTONIO FLORIDIAITALIA/toscana

«Ora basta, però; che sia l’ultima volta!»: è stato questo uno dei sentimenti più diffusi, tra il popolo democratico e di sinistra della Toscana, di fronte allo scampato pericolo di una vittoria fascioleghista.
E di uno scampato pericolo si è trattato: non inganni lo scarto finale di otto punti tra i due contendenti. La vittoria di Giani nasce solo negli ultimi tre giorni, da uno scatto finale di mobilitazione democratica, da un livello di partecipazione molto elevato; dal timore diffuso che le bandiere leghiste potessero davvero piantarsi in terra toscana.

Le immagini trionfali del comizio finale di Salvini e Meloni a Piazza della Repubblica hanno indotto una reazione di segno contrario: un riflesso difensivo, senza dubbio, ma a difesa di valori e principi non proprio da buttar via perché hanno a lungo contraddistinto la civiltà democratica di questa regione.
Non erano “falsi” o manipolati i sondaggi che, a quindici giorni dal voto (e anche dopo, nelle voci che filtravano), davano i due schieramenti in parità: erano la fotografia di uno stato ancora molto debole di mobilitazione dell’elettorato democratico e di sinistra; e del disagio diffuso (è inutile negarlo, oggi) che suscitava una candidatura non proprio da tutti apprezzata. Ma quando si è fatta strada una paura concreta, si è mossa un’ondata profonda.
Paura, sì, è giusto dirlo: ma, come sappiamo, la paura è un’emozione che in politica conta, e non poco. E che può avere segni diversi. Ed è stato alquanto irresponsabile alimentare l’idea che la Toscana non fosse “contendibile”: se gli elettori avessero creduto ad una tale diceria, Ceccardi avrebbe vinto davvero. Meno male che a smentirla c’erano anche i voti “veri”, quelli delle Europee dello scorso anno, che vedevano la destra in vantaggio di quattro punti.
Ma, appunto, da qui nascono alcune domande: come è stato possibile, da dove nasce la frattura profonda che ha reso credibile e possibile la vittoria di questa destra in Toscana? Questioni che rimandano anche ad una riflessione sulle condizioni in cui versa la sinistra nel nostro paese. Non è possibile, si dicono in molti, che si debba ogni volta puntare su questo riflesso difensivo: l’abbiamo sfangata, ma non se ne può più! E’ il sintomo di una disconnessione profonda, che andrebbe finalmente affrontata.

E sarebbe esiziale se ora il Pd, e il neo-presidente, rimuovessero quanto accaduto, per ritornare alla routine di una gestione di potere che alla fine logora se stessa, e logora il tessuto democratico. Il Pd, che in Toscana raggiunge la ragguardevole cifra del 35% dei voti, non può pensare che questi voti siano “suoi”: si giova anche della peculiare ed esiziale frammentazione dell’offerta politica alla sua sinistra, finendo così per apparire agli occhi di molti elettori – che pure non hanno particolari motivi per apprezzare questo partito - come l’unico voto “sicuro”. L’effetto sarà che, nel nuovo consiglio regionale, non ci sarà una sinistra fuori dal Pd. Il tentativo più generoso e difficile è stato quello di una lista – Sinistra civica ecologista, dentro la coalizione Giani, concepita sul modello della “coraggiosa” emiliana, che univa Articolo Uno, metà Sinistra Italiana e soprattutto molti indipendenti e “senza casa” di sinistra - che sfiora il 3%, ad un soffio dalla soglia necessaria; dentro la coalizione, abbiamo anche i Verdi, con l’1,7% (e ricordiamo che i vertici nazionali hanno commissariato il gruppo dirigente locale, che stava trattando per la lista unitaria, e hanno imposto l’uso solitario del simbolo); fuori dalla coalizione, un’altra lista, guidata da Tommaso Fattori, che si ferma al 2,9, lontana dalla soglia del 5% e, infine, ben due liste “comuniste”, che insieme raccolgono l’1,4%.
Di fronte a tutto ciò, ha però poco senso deplorare – come oramai accade ritualmente - l’irrefrenabile tendenza a coltivare il proprio orticello: l’ostacolo principale sta nell’analisi che guida le scelte politiche. Se si ritiene, come pure è stato detto, che Giani e Ceccardi erano “le due facce della destra”, c’è poco da discutere, si soddisfa il proprio impulso identitario e radicale, salvo poi scoprire che le masse la pensano proprio altrimenti.
Il Movimento Cinque Stelle deve finalmente interrogarsi sulla sua natura; dimezzato rispetto alle Europee, oltre cento mila voti in meno; e non vi è stato nemmeno un grande uso del “voto disgiunto”, come accadde in Emilia: sono elettori che si sono spostati direttamente sulle liste di centrosinistra o sul candidato presidente.

Almeno in una regione come la Toscana, questo elettorato ha una storia di sinistra e ha sentito la posta in gioco. E sta in questo spostamento massiccio forse la chiave principale della tenuta del centrosinistra. Il tentativo ostinato, e tanto sbeffeggiato, di tener aperto il filo del dialogo unitario con il M5S, trova in questo risultato la migliore conferma della sua validità.
Già vent’anni fa, nelle elezioni regionali del 2000, il centrodestra guidato da Altero Matteoli aveva raccolto lo stesso 40% che oggi conquista Ceccardi: ma, a quel tempo, dall’altra parte, avevamo una coalizione larga e plurale, che aveva una forte e identificabile componente di sinistra. Oggi vi è, oltre che frammentazione, un Pd sempre più partito omnibus, federazione instabile di cordate: può anche rendere bene elettoralmente, grazie anche alla serrata lotta per le preferenze, ma non offre incentiva la mobilitazione e una presenza espansiva nella società. E non sempre si potrà contare su un riflesso condizionato di difesa della democrazia, come accaduto oggi. E’ bene che lo si tenga bene in mente.

Ci permettiamo di dare un consiglio al neo-presidente: valorizzi, nella sua azione, le sue lontane ascendenze nella sinistra socialista e metta la sordina, specie nelle concrete scelte di governo, alle sue più recenti frequentazioni renziane: qualcosa che poteva costare caro, a lui e a tutti noi.

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