VISIONI

Una sfida alle regole e ai propri fantasmi

Per Roland Barthes lo sport ritualizza la lotta per la vita, privandola di pericoli
SILVIA NUGARAcecoslovacchia/italia/roma

Se lo sport ci appassiona, scrive Roland Barthes, è per la sua capacità di ritualizzare la lotta per la vita, di ridurla a pura forma, privandola di effetti e pericoli. Nello sport, l’essere umano mette alla prova la propria capacità di «vincere la resistenza delle cose» in un corpo a corpo con la natura e con gli altri che è innanzitutto un corpo a corpo con se stessi, con i propri fantasmi ma anche con le norme sociali, comprese quelle di genere e sessuali.
Aveva quasi trent’anni la ginnasta cecoslovacca Eva Bosákova quando alle Olimpiadi di Roma 1960 vinse l’oro alla trave. La medaglia la consacrò regina della ginnastica, costringendola però a dover confermare un risultato che non è mai definitivo. Così è la vittoria: concede una gioia momentanea ma innesca pressioni e aspettative durature, attirando anche curiosità inattese. Infatti, la regista Vera Chytilová, che diventerà una delle principali esponenti della Nová Vlna cecoslovacca con Miloš Forman, Jirí Menzel e Jan Nemec, sceglie Bosákova come protagonista del suo lungometraggio d’esordio O necem jiném (Qualcosa d’altro) del 1963. Il film trasforma in cinema le parallele su cui volteggia la ginnasta raccontando con il montaggio alternato le vite di due donne in crisi con il ruolo che occupano: una casalinga di nome Vera e, appunto, Eva Bosákova. Vera è frustrata dalla vita domestica e dalla maternità, vorrebbe essere una madre amorevole e una moglie perfetta ma si scopre collerica e infedele. Spesso ha la sensazione di aver dimenticato qualcosa: «Cos’è che volevo?». Eva si allena quotidianamente in vista dei mondiali, ci sono giorni in cui sembra provare un vero piacere nell’esercitarsi a ritmo di jazz e altri in cui le membra dolgono e lo spirito è paralizzato dal timore di fallire. La casa e la palestra sono prigioni da cui non è possibile evadere?
A UN GIORNALISTA che la interroga Eva rifila risposte da copione ma lui spegne il registratore e la invita a gettare la maschera: «Eva cosa c’è che non va?». «Ho rinunciato a tutto per lo sport, non ho più tempo per nient’altro, sono un po’ stanca» replica lei, forse tentata dalla trappola di una vita tradizionale da moglie e madre come quella di Vera. «Perché non smetti?» le chiede lui. Lei sorride un po’ sorniona un po’ disperata, abbassa il volto candido che scompare sotto i capelli neri, il maglioncino nero, le pareti nere. Stacco ed Eva è di nuovo in palestra a sudare. È stanca ma si allena. Il giorno della gara calca la pedana con la freddezza di una macchina e il primo gradino sul podio è suo, come se non fosse mai caduta, come se non avesse mai pianto, come se non fosse mai stata tentata di fuggire. La ritroviamo poi in palestra accanto a una giovane che le somiglia e ha negli occhi la luce di chi sogna. Eva ora è allenatrice, la vita da ginnasta che l’ha fatta soffrire e a cui voleva rinunciare è diventata una scelta perché non esiste qualcosa d’altro se non quello che si costruisce un giorno dopo l’altro.
GLI ALTI E BASSI della passione rischiano di compromettere la carriera della giovane Chris, co-protagonista di Personal Best (1982) di Robert Towne, noto in Italia come Due donne in gara, a cui verrà in aiuto la veterana Tory. In un film che annovera attori e sportivi, l’una è Mariel Hemingway all’esordio, l’altra l’ostacolista Patrice Donnelly nella parte di due pentatlete statunitensi che si preparano per le Olimpiadi di Mosca 1980, quelle a cui gli Usa finirono per non partecipare come atto di boicottaggio dell’Urss.
Tra loro nasce un amore, avversato prima dall’allenatore e poi dall’entrata in scena di un nuotatore (il corridore e giornalista Kenny Moore) con cui Chris intreccia una relazione. Le due si separano e rivaleggiano ma solo finché un infortunio le riunisce. Nella competizione decisiva si sosterranno a vicenda. Towne oscilla tra il voyeur e il tifoso: filma gli allenamenti da visuali piccanti, indugia su saune senza veli e calzoncini inguinali ma sa anche dare forma a un universo estetico, valorizzare i gesti atletici e con il montaggio rendere la tensione del pre-gara ed esaltare sfida.
Molte atlete si scontrano con le norme di genere, soprattutto in quelle discipline che oltre ai risultati valorizzano anche la capacità di aderire a un femminile ideale e stereotipato. Ci sono sport paradossali come la ginnastica, il nuoto sincronizzato o il pattinaggio artistico in cui alle ragazze è richiesta prestanza ma anche grazia in virtù di quel doppio vincolo che ingiunge al «secondo sesso» di essere sempre allo stesso tempo qualcosa e il suo contrario. Anche per questo è tanto paradigmatica l’eccezionale vicenda della pattinatrice Tonya Harding raccontata da Craig Gillespie in Tonya (2018) con Margot Robbie nel ruolo della redneck che volle farsi regina del ghiaccio patendo le pene dell’inferno perché nulla nella sua famiglia povera e sfasciata, nei suoi costumi sgargianti, nel suo trucco pesante a coprire i lividi delle percosse che riceveva prima dalla madre e poi dal marito, la predestinava a quella carriera.
MA TONYA aveva un fisico vigoroso e una forza che le permise di essere la seconda donna al mondo a compiere un triplo axel in competizione e di partecipare due volte ai Giochi olimpici invernali (Albertville e Lillehammer). La stampa si deliziò a montare e alimentare una presunta rivalità con la graziosa Nancy Kerrigan a cui un bel giorno del 1994 un tipaccio pagato dal marito di Tonya spaccò un ginocchio con una mazza di ferro. La complicità di Harding non fu mai provata ma intanto lei fu interdetta da ogni gara ritrovandosi senza lavoro né un diploma che le permettesse di trovarlo. E così ripiegò per qualche tempo sulla boxe che nell’immaginario è il tipico sport per chi ha pochi mezzi. L’attentato a Kerrigan fu un vero e proprio «scandalo sportivo».
NEL FILM Le sport et les hommes (1961) di Hubert Aquin, costruito in dialogo con un testo di Roland Barthes poi pubblicato in volume con lo stesso titolo, «lo sport è il crinale che separa il combattimento dalla sommossa» e dunque «lo scandalo sportivo avviene quando gli esseri umani infrangono la sottile barriera che separa le due lotte: quella dello sport e quella della vita. Lo sport rientra allora nel mondo non mediato delle passioni e delle aggressioni». Quella di Tonya Harding è insomma, una triste storia di emancipazione mancata, in cui la violenza del mondo sociale finisce per avere la meglio sull’atleta che aveva tanto faticato nel tentativo di contrastarla.
In modo analogamente violento hanno operato le norme corporee nei confronti di persone intersessuali, come spiega Elisa Virgili nel libro Olimpiadi. L’imposizione di un sesso (Mimesis, 2012). L’esempio più recente ma non il solo è Caster Semenya che ha dovuto rinunciare all’atletica perché la federazione internazionale ha preferito tentare di normalizzare il suo corpo a suon di ormoni pur di non rimettere in discussione la divisione maschi/femmine con cui organizza le competizioni. Fino ad oggi lo sport ha preferito imporre categorie convenzionali ai corpi reali facendo fuori quelli scomodi invece di elaborare le categorie sulla base dei corpi esistenti.
NON C’È da stupirsi se sono nati i Gay Games (a San Francisco nel 1982) in cui la comunità arcobaleno si ritrova ogni quattro anni al motto di «participation, inclusion and personal best» e le cui peculiarità e contraddizioni sono mostrate dalla regista Françoise Romand in Gais Gay Games (2011). La prossima edizione è annunciata a Hong Kong per il 2022, una destinazione non indifferente quanto a libertà e autodeterminazione.
4.fine

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