COMMENTO

Lotta di classe, ecologia e nuovo soggetto politico

La Polemica
MARIO NOERA, ROBERTO ROMANOITALIA

Luciana Castellina, rispondendo a Fausto Bertinotti (Repubblica, 17 agosto), apre una discussione salutare e anche drammaticamente urgente. Bertinotti, infatti, sembra contrapporre ecologia e lotta di classe («l’ambiente sottratto alla lotta contro le disuguaglianze è solo olio nel motore»).
La riflessione di Castellina si incardina su tre punti: (1) il green capitalism non è possibile perché la rivoluzione ecologica “presuppone la fine della centralità del suo organo più delicato ed essenziale: il mercato”; (2) “la catastrofe che incombe approfondirà le disuguaglianze in misura inimmaginabile”: ambientalismo e lotta di classe non sono quindi terreni di scontro che si sostituiscono l’uno con l’altro, ma sono tra loro complementari; (3) bisogna saper aggregare il “soggetto antagonista”. Concordiamo nel merito di ciascuno questi punti, ma a noi sembra che oggi sia più importante mettere in luce il nesso che li lega. Il primo punto (incompatibilità tra capitalismo e rivoluzione green) ed il secondo (aumento delle disuguaglianze) non garantiscono infatti meccanicamente il terzo punto (aggregazione di un fronte sociale antagonista). E’ quindi quest’ultimo il punto cruciale: la discussione non dovrebbe essere sul se affrontare le sfide ambientali, ma sul come farlo.
LA CATASTROFE ambientale verso cui stiamo ormai viaggiando a velocità supersonica ha infatti tre caratteristiche che l’azione politica non potrà comunque eludere. La prima è che il sistema non è più emendabile in modo indolore neppure dal punto di vista del capitalismo stesso. Il premio Nobel William Nordhaus ha stimato che per mantenere il mondo su un sentiero ottimale di crescita, la temperatura andrebbe lasciata crescere di 3,8°C di qui al 2100, tuttavia l’Ipcc (l’agenzia dell’Onu per lo studio del riscaldamento climatico) avverte che, se l’aumento va oltre i 2°C, le conseguenze (scioglimento dei ghiacciai, innalzamento dei mari e siccità diffuse) saranno irreversibili e catastrofiche. Il pensiero mainstream stesso riconosce quindi che il mercato è disarmato e che ci vuole altro. Invertire la tendenza al riscaldamento climatico richiede una reazione immediata, coordinata, estremamente invasiva e molto costosa (dell’ordine di decine di trilioni di dollari a livello globale).
IL TERRENO DI SCONTRO è quindi sul come si distribuiranno i costi e i benefici di uno sforzo così imponente. La lotta di classe, volenti o nolenti, consapevoli o no, sarà la cifra inevitabile dei prossimi decenni. Su questo terreno il fronte capitalistico è già in grande movimento, la sinistra purtroppo invece no. E’ infatti ormai opinione perfino di alcuni autorevoli media liberisti che “salvare il capitalismo” richieda un ripensamento radicale non solo nella distribuzione delle risorse e nella regolazione dei mercati, ma anche dell’organizzazione sociale (mobilità elettrica, riorganizzazione urbanistica) e dei processi produttivi più inquinanti ed energivori (energia rinnovabile, edilizia a emissioni zero, chimica e metallurgia pulite ecc.). Nel settembre scorso, il Financial Times titolava in prima pagina “Capitalism: time for a reset”, scegliendo, non a caso, l’espressione “resettare”, non “riformare”. Si sta cioè diffondendo, tra le èlite mondiali, la consapevolezza dell’urgenza di un rovesciamento dell’ordine delle priorità: il principio di sostenibilità si sta progressivamente sostituendo, in tutti i campi, alla primazia finora indiscussa dell’efficienza e della profittabilità.
IL SECONDO ELEMENTO è che, dopo gli accordi di Parigi, i temi ambientali e del contrasto al riscaldamento climatico sono già in cima all’agenda politica europea e, se Joe Biden vincerà la corsa alla Presidenza il prossimo novembre, il tema sarà molto presto al centro anche della politica americana. L’epidemia Covid-19 ha solo molto accelerato un processo già in atto. In Europa il Green Deal da 1000 miliardi lanciato dalla Commissione Europea a fine 2019 ed i recenti finanziamenti post-Covid del Recovery Fund da 750 miliardi dovranno ancorarsi a piani di investimento “verdi” molto dettagliati e verificabili; negli Usa, Biden promette investimenti di almeno 2 trilioni di dollari. La terza decisiva caratteristica dello scenario prossimo venturo è che questo processo epocale, una volta in moto, plasmerà anche le sensibilità e gli orientamenti di massa, ma nulla assicura che alimenti solo reazioni positive. Anzi: potrebbe rilasciare pericolose tossine (paura di perdere il posto di lavoro, disuguaglianze più aspre ecc.) ed esporre a derive politiche pericolose se la gestione della transizione non è ben sorvegliata e governata.
L’antidoto per la sinistra (politica e sindacale) contro questi rischi non è certo avvitarsi in dibattiti astratti sull’attualità di Marx o attardarsi ad elencare le evidenti malefatte di un finanzcapitalismo in declino, ma quello di stare fino in fondo dentro al processo di cambiamento in atto e starci in modo estremamente attento e costruttivo: valutare pragmaticamente le iniziative e gli investimenti messi in tavola dai governi, elaborare proposte alternative praticabili e, su questo, mobilitare energie e alleanze sociali.
LA DOMANDA da cui partire non è se ci sia o no una contraddizione più o meno insanabile tra tematiche ambientali e lotta di classe, ma in che modo la rivoluzione green possa diventare una piattaforma utile alla ricomposizione di un “soggetto antagonista” (o meglio: protagonista) in funzione di un assetto sociale futuro che magari non sarà il socialismo, ma che cionondimeno deve essere percepito dalla gente come molto migliore di quello presente. Come fare? Di questo, non di altro, pensiamo si debba oggi discutere.

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