VISIONI

Peter Green, una storia folgorante nell’olimpo del rock

ADDIO AL FONDATORE DEI FLEETWOOD MAC
STEFANO CRIPPAgb

È stato uno dei chitarristi che più hanno influenzato la scena rock nei 60 e 70. Geniale e innovativo, capace di infondere nelle sue composizioni un tratto e uno stile sempre inconfondibile. Addio a Peter Green, chitarrista e co-fondatore dei Fleetwood Mac ‘prima maniera’. Aveva 73 anni, e secondo il comunicato che la famiglia ha inviato alla Bbc, la morte è avvenuta «pacificamente nel sonno».
Peter Allen Greenbaum, questo era il suo vero nome, era nato nella Londra appena uscita dal devastante conflitto bellico nel 1946, precoce e talentuoso musicista tanto che appena ventenne – nel 1966 – viene chiamato a sostituire – in un primo momento per poche session ma poi a titolo definitivo, Eric Clapton nei Bluesbreakers di John Mayall, la blues band inglese più celebre degli anni 60.
MA È DALL’INCONTRO con Mick Fleetwood e John Mc Vie, anch’essi nella band di Mayall, e il chitarrista Jeremy Spencer, che nasce l’idea di formare un gruppo destinato a fare la storia del rock. Un inizio intriso di blues in cui è evidente l’apporto creativo di Peter. Con loro incise solo tre album – rimasti nella storia – con pezzi diventati dei classici come lo strumentale Albatross che si arrampicherà fino a raggiungere il primo posto delle hit britanniche. Black Magic Woman con le sue cadenze blues e l’inciso folgorante, scritto nel ’68, diventerà un successo ma nella versione di Carlos Santana.
I Fleetwood lavorano in studio e dal vivo con ritmi quasi stakanovisti: l’esordio in formato album è folgorante Peter Green’s Fleetwood Mac (1968), sin dalla celebre trash cover con il bidone maleodorante in un ambiente degradato, che richiama la povertà e lo squallore dei ghetti neri delle grandi metropoli americane.Un disco potente, blues in cui sono chiari i riferimenti ai trascorsi con Mayall. Nello stesso anno viene pubblicato Mr. Wonderful, dove il rock si fonde ancora con il blues dai toni sempre più accesi come in un rifacimento perfettamente riuscito di My Broom di Robert Johnson. Conosciuto anche con il titolo Fleetwood Mac in Chicago, Blues Jam at Chess (1969), il doppio album ripercorre le ore di jam session che Green e soci vivono a Chicago accanto a maestri come Willie Dixon, Cris Spann, Buddy Guy. Then Play on (1969) è il canto del cigno, l’ultimo di Peter con la band dove accanto al blues si fanno strada sonorità decisamente più psichedeliche.
SONO I FANTASMI di Green – a cui viene diagnosticata la schizofrenia curata con l’elettroshock – a trascinarlo nel baratro più nero, abbandona la band e sparisce letteralmente dalla scena per dieci anni. Si disfa di tutto, addirittura della storica chitarra acquistata da Gary Moore. Ricoveri si alternano a momenti di parziale lucidità, dopo una dimissione parte per Israele dove vive l’esperienza del kibbutz, fino all’insperato ritorno nel 1979 con In the Skies, opera bella ma decisamente lontana dagli standard dei suoi esordi. Seguono altri album, professionali e un po’ scolastici, fino a un nuovo stop per poi rientrare in scena nel 1997 con una band di vecchie glorie britanniche - The Splinter Group, che annovera fra le sue fila Nigel Watson e Cozy Powell. Nel 1988 entra a far parte della Rock And Roll Hall Of Fame insieme ai Fleetwood Mac. Lo scorso febbraio Mick Fleetwood ha organizzato uno show per celebrare la sua storia. «Volevo che tutti sapessero che non sono stato io a fondare questa band, ma Peter Green», ha detto.

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