COMMENTO

Un cambio di rotta nell’economia europea post Covid

Recovery Fund
FELICE ROBERTO PIZZUTIeuropa/BRUXELLES

Ci sarà modo di approfondire l’accordo raggiunto dalla Commissione europea, ma se si astrae dalla teatralità delle trattative e si esaminano gli aspetti di fondo e di lungo periodo del risultato, l’aggettivo “storico” da molti usato non sembra fuori luogo.
Rispetto all’iniziale proposta del Recovery Fund, sicuramente si poteva fare di più e ci sono stati anche dei passi indietro (ma anche miglioramenti, come la possibilità di usare i fondi per spese già fatte dal febbraio 2020); tuttavia se si confronta il nuovo clima dominante nelle istituzioni europee anche solo rispetto a quello precedente il Covid-19, il cambiamento intervenuto è di grande rilievo.
Se poi si estende il confronto a come l’Ue reagì alla crisi del 2008 e, in particolare, a come furono affrontate la situazione greca nel 2010 e le tensioni finanziarie del 2011 che misero in seria discussione la sopravvivenza dell’Unione (fu dirimente il whatever it takes di Draghi), trovano conferma le prime impressioni espresse subito dopo l’esplosione della pandemia ovvero che tra i suoi “effetti collaterali” vada inclusa anche l’affermazione di una maggiore consapevolezza della necessità di cambiare rotta nella costruzione europea e nelle strategie economiche.
Per decenni, il pensiero economico dominante aveva sostenuto l’ossimoro della “austerità espansiva” che aveva resistito anche alle smentite delle indagini empiriche, continuando a ostacolare le politiche di stimolo all’economia, sostenendo che esse frenerebbero i mercati e avrebbero effetti complessivamente restrittivi. La costruzione europea ha risentito particolarmente degli effetti controproducenti derivanti dall’ideologia neoliberista, dalla sua applicazione particolarmente ortodossa e dal prevalere di idiosincrasie nazionali rispetto alle esigenze dell’Unione.
Non è un caso che la crisi iniziata nel 2008 negli USA abbia esercitato i suoi effetti più deleteri in Europa, dove i minori tassi di crescita medi sono stati accompagnati dall’aumento delle distanze economico-sociali, determinando un esito opposto a quello proprio di un processo d’unificazione. Innestandosi nella crisi iniziata nel 2008 - mai effettivamente superata in Europa - la pandemia ha accelerato e imposto una revisione delle politiche economico-sociali che - per quanto ancora contrastata (ma da Paesi di peso minore e comunque non più dalla Germania) segna una evidente discontinuità rispetto all’idea di un’Europa guidata solo dai mercati.
La Corona-crisi ha evidenziato non solo le carenze dei sistemi economici (particolarmente in Europa) dal lato della domanda - alimentate dalla crescita delle diseguaglianze e dell’instabilità economico-sociale indotte dalla globalizzazione non governata – ma ha messo in luce nuovi problemi strutturali dal lato dell’offerta presenti nell’organizzazione produttiva.
La globalizzazione aveva spinto alla frammentazione e delocalizzazione dei processi produttivi su scala mondiale che ritrovavano unità tramite una accresciuta circolazione dei prodotti semilavorati. La chiusura delle frontiere imposta dal contrasto al virus ha generato effetti che si sono sommati a quelli delle politiche protezionistiche e dei nuovi equilibri geopolitici, evidenziando e ampliando la fragilità dell’assetto produttivo distribuito su scala globale.
Sia le politiche protezionistiche sia le politiche sanitarie anti Covid hanno poi reso evidente l’importanza delle dimensioni dei sistemi economici nazionali e del ruolo interattivo delle istituzioni rispetto alle forze di mercato. L’irrigidimento delle frontiere nazionali ha accentuato la condizione di inferiorità strutturale delle economie europee rispetto a quelle molto più grandi di Usa e Cina che nel confronto internazionale possono contare anche sul maggior peso delle loro istituzioni.
Dopo la crisi del 2008, l’azione più efficace a difesa della costruzione europea è stata svolta dalla Bce i cui acquisti di titoli pubblici, anche se sul mercato secondario, hanno di fatto sostenuto i bilanci pubblici dei paesi più a rischio rispetto alla speculazione internazionale. Ma la politica monetaria non è lo strumento più idoneo a rilanciare anche qualitativamente lo sviluppo e la sua equa distribuzione tra paesi e classi sociali.
Il post Covid è una grande occasione di ripartenza economico-sociale che chiama in causa la capacità di progettazione e realizzazione di investimenti produttivi e di assetti istituzionali sociali e politici adeguati. La politica deve allentare il suo ancoraggio nazionale e favorire la sovranità delle istituzioni comunitarie; non è più accettabile il dumping fiscale (più o meno calvinista); la logica intergovernativa deve cedere il passo al rafforzamento delle istituzioni direttamente rappresentative dei cittadini europei.
Non sono suggerimenti originali; la novità consisterebbe nel rendersi conto più diffusamente che realizzarli è anche conveniente.

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