CULTURA

La «mutazione antropologica» che cuce un disastro quotidiano

UN’ANTOLOGIA POETICA E PLURALE SUL MONDO DEL LAVORO, A CURA DI VALERIA RAIMONDI PER L’EDITORE PIETRE VIVE
STEFANIA TARANTINOITALIA

La nostra classe sepolta. Cronache poetiche dai mondi del lavoro, è il titolo di una raccolta poetica a più voci edita dalla casa editrice Pietre vive di Locorotondo (che pubblica solo poesia), a cura di Valeria Raimondi (pp. 128, euro 12). È un libro che contiene versi preziosi e duri. La raccolta è divisa in tre sezioni: Pane quotidiano, Homo oeconomicus, Colata continua.
TUTTO RUOTA intorno agli strappi che viviamo nel mondo del lavoro e nel dramma del non lavoro. Le porte chiuse, le attese mancate, le aspettative tradite. Non si parla del lavoro in astratto ma della carne del mondo, dove il pensiero torna e porta verità. Ogni voce parte dalla propria esperienza lavorativa di precariato, di sfruttamento, di alienazione ma anche di rabbia, di lotta, di gioia, di soddisfazione, di ricerca di un posto nel mondo. Sono le voci di donne e uomini che pensano se stesse/i e il mondo attraverso la lente del lavoro. Sono voci che strappano dall’invisibilità e dall’indifferenza tutti/e coloro che vivono nella cancellazione del precariato odierno. È un dire poetico che fa vedere i gesti di sussistenza e che parla di particelle infinitesimali di resistenza umana inalienabile.
CRONACA E POESIA: le impalcature invisibili rendono in stato di veglia la nostra coscienza critica, la nostra possibilità di non essere stritolati. Il lavoro è essenziale nella nostra vita. Cambia con i tempi e si modifica trasformando inesorabilmente le singole vite. Il passaggio dal capitalismo al neoliberalismo ha avviato una reale «mutazione antropologica». C’è un divario abissale tra l’operaio del Novecento e il precario di oggi. Se il primo era riuscito con le sue lotte ad affermarsi come soggetto sociale e politico, a trovare un compromesso tra logica dello sfruttamento capitalistico e rivendicazione dei diritti, il precario di oggi è incastrato dentro un paradigma economico molto più feroce. Lo consegna al vortice di uno sfruttamento senza più limiti. Dinamica predatoria e ricattatoria dell’usa e getta. Il lavoro precario ci fa invisibili, inessenziali, sostituibili. Non conferisce alcuno status e non garantisce nulla, né inclusione né benessere.
È LUCIDAMENTE DETTA nel testo una condizione in cui si può lavorare restando comunque poveri. Si spezza l’immaginare e il fare. Si spezzano i sogni. Tutto è inchiodato al presente, all’ora fuggevole di un tempo rimpicciolito. La trappola che fa scivolare dal lavoro flessibile al lavoro gratuito – scivolamento facilissimo ancor più nell’ambito prettamente culturale e artistico – dice della contraddizione di un sistema che in fondo disprezza le risorse umane e paga bene l’ignoranza. Il libro mette in luce le condizioni di sudditanza che il lavoro porta con sé. Dal desiderio di sentirsi parti attive di una società che evolve, si rientra in un meccanismo cieco, in uno spazio indefinito che non vuole altro che asservimento. La rottura della solidarietà di classe è approdata qui. Restiamo soli, siamo ricattabili e consegnati a un’angoscia privata e senza scampo. Le porte restano chiuse perché il lavoro non è più diritto, ma privilegio di pochi. Solo il rifugio tra parentele delle persone giuste. Così accade che «chi parte dal niente è nel niente che si ritrova». Il libro riduce la distanza tra ciò che nobilita e ciò che mobilita, la fa cadere. Solo questa possibilità può ricucire lo strappo che ha trasformato la dimensione lavorativa in una tragedia quotidiana. Nel susseguirsi delle voci, la poesia conferma la sua militanza, la parola che insorge dal mutismo e si fa azione politica. Qui vivono soprattutto le donne. Le donne dei «colloqui» a dar conto dell’intenzione di sposarsi e far figli o di una professionalità ridotta a servizi di segreteria mai richiesta ai loro colleghi maschi.
ANCOR PIÙ DURA diventa la parola sulle morti bianche. Né si scarta il sudore dell’operaio bulgaro, tunisino, algerino, del lavoro nero senza vie d’uscita, manna di imprenditori scaltri e corrotti; con pochi soldi si appropriano di una manodopera di eccellenza. Ricchezza che ruota e cresce intorno ai debiti dei paesi poveri. L’occidente, sotto le vesti della generosità e della falsa salvezza, vuole la povertà perché da tempo immemore mente alla propria indecente memoria. L’azione poetica umilmente ci riconsegna alla realtà. Dolore e coraggio si fondono in quel poco di giustizia umana che guarda e vede per dar senso alla parola. Nella parabola infernale di un mondo che rafforza la propria tecnologica, raffinata crudeltà.
E, come già accaduto nel Sulcis-Iglesiente, fa finta di non vedere «l’arsenico nella mandorla, lo zinco nel miele» e continua a ripeterci di avere un bel mare. Basterebbe ritrovare il nostro prodotto interno netto. Forse, come una delle voci presenti nel libro ci ricorda, basterebbe «Lavorare con le mani e vivere con il cervello/aggrapparsi al senso della vita/al succo delle cose/ai significati/e alla verità più nuda e cruda».

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