COMMENTO

Fascismo e foibe, fare i conti con la Storia

Memoria
DAVIDE CONTIitalia/trieste

L’immagine di Mattarella e Pahor, i presidenti della repubblica italiano e sloveno che si tengono per mano a Trieste evoca, nella sua dimensione storico-politica, una similitudine con l’incontro tra Mitterand e Kohl nel cimitero di Verdun del 1984. Nobile l’intenzione, diversi sia il contesto sia il racconto pubblico (quantomeno duale, quando non inconciliabile) prodotto dalle politiche della memoria dei due Paesi nell’ultimo quindicennio.
A cento anni dall’incendio appiccato il 13 luglio 1920 dagli squadristi fascisti, lo Stato italiano restituisce finalmente alla minoranza slovena di Trieste il Narodni Dom ovvero la sua Casa del Popolo.
Lo fa però nel quadro di un pellegrinaggio dei due capi di Stato che difficilmente può essere assimilato a quello storico, 36 anni fa, del cancelliere tedesco e del presidente francese.
L’incontro ufficiale al Narodni Dom è stato infatti preceduto dalla visita congiunta al monumento alla foiba di Basovizza ed a quello eretto in onore di quattro antifascisti sloveni condannati dal Tribunale Speciale e fucilati il 6 settembre 1930.
Questo itinerario memoriale è stato preceduto da un lato da un’enfasi celebrativa che facendo leva sulla retorica della «pacificazione» e della «riconciliazione» si innesta nella deleteria narrazione parificante dei «torti subiti da ambo le parti» (che siano fasciste o antifasciste le identità delle parti in causa poco sembra importare) e dall’altra da polemiche e invettive dell’estrema destra contro il Presidente Mattarella accusato, per bocca di Roberto Menia ovvero il principale artefice della istituzione del «giorno del ricordo», di dare luogo «ad una giornata buia per la dignità nazionale» e di essersi «genuflesso» alla Slovenia.
Intanto il presidente della Regione Friuli Venezia-Giulia definiva semplice «atto di educazione istituzionale» la sua presenza al monumento ai quattro antifascisti sloveni ed il comune di Trieste patrocinava un convegno di associazioni di estrema destra in cui si sosteneva la tesi negazionista che l’incendio del Narodni Dom fosse stato appiccato dagli stessi sloveni.
Teoria antitetica alle stesse parole di Mussolini che il 20 settembre 1920 a Pola dichiarò: «Abbiamo incendiato la casa croata a Trieste e l’abbiamo incendiata a Pola. Di fronte a una razza come la slava, inferiore e barbara, non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino ma quella del bastone».
Sulle pagine de Il Popolo d’Italia il futuro duce definì l’incendio del Narodni Dom «il capolavoro del fascismo triestino», un’opera che non rimase isolata. Il giorno seguente i fascisti dettero fuoco alla Casa del Popolo di Pola mentre a Pisino assaltarono la sede del giornale cattolico sloveno Pucki Priaateli. In tutta la Venezia Giulia in quei mesi saranno dati alle fiamme 134 tra circoli della cultura, sedi di cooperative e camere del lavoro e prenderà vita quel «fascismo di frontiera» capace di coniugare l’antislavismo nazionalista e l’antisocialismo politico nonché saldare proprietari terrieri e industriali in un blocco d’ordine pronto a tutto per opporsi alle rivendicazioni delle masse contadine e operaie mobilitate dall’onda lunga del biennio rosso italiano.
Da quella radice si sviluppò il regime dittatoriale che oppresse l’Italia per oltre vent’anni ed è proprio questa parola «fascismo» il grande assente delle celebrazioni istituzionali di ieri.
Una parola che se pronunciata avrebbe sgomberato il campo da ambigue equiparazioni fondate sul piano empatico-emotivo o su memorie selettive che pretendono di contrapporsi alla complessità della storia.
All’indomani dell’incendio del Narodni Dom Il Piccolo scrisse che quelle fiamme «purificavano finalmente Trieste e l'anima di tutti noi». Quale sarebbe stato il futuro dell’Italia dopo quella purificazione è storia. La dittatura, l’invasione dei Balcani, l’assassinio di massa e le deportazioni delle popolazioni civili.
Alla fine della Seconda guerra mondiale guerra la «mancata Norimberga italiana» e la dispensa dai risarcimenti furono resi possibili dagli equilibri della Guerra Fredda che permisero all’Italia di evitare una pace punitiva.
I conti con la nostra storia necessitano di una’assunzione di responsabilità e di una definitiva liberazione dalla mitologia degli «italiani brava gente» che ha finito per costituire un alibi persino per il fascismo i cui crimini di guerra non potranno mai essere uguali alle altre forme di violenza emerse nella «guerra totale» del 1939-1945.
Elaborare il passato senza scorciatoie resta il solo indirizzo possibile per un futuro di pace e fraternità tra i popoli e l’unico lascito davvero qualificante per il nostro Paese: «Una generazione - scriveva Gramsci - può essere giudicata dallo stesso giudizio che essa dà della generazione precedente, un periodo storico dal suo stesso modo di considerare il periodo da cui è stato preceduto».

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