VISIONI

La liberazione dei corpi e dell’immaginario sulle mura urbane

«La lotta è fica», il progetto del collettivo Cheap, 25 poster per un pensiero antirazzista e trans-femminista
SILVIA NUGARAITALIA/bologna

Al contrario di Facebook, dove la pagina su cui si scrive è chiamata «muro» ma che finisce per trasformare la comunicazione in un dialogo limitato agli ‘amici’ invece di metterci in connessione con una vera collettività, i muri delle città possono ospitare incontri sorprendenti tra arte e politica e aprire a dibattiti tra comunità diverse. All’inizio di Mur Murs (1980) di Agnès Varda, documentario girato a Los Angeles in un momento in cui la street art era al suo apogeo negli Stati Uniti, la voce off della regista recita una filastrocca geniale per il modo in cui condensa, con una forma poetica capace di fondere levità e critica sociale, un pensiero sul valore dell’arte murale, dell’arte di strada. La filastrocca è quasi intraducibile perché gioca con l’assonanza tra le parole murale, muro e mormorio che in francese iniziano tutte allo stesso modo e dice così: «Mural comme mur vivant, mur vital, mur moral / mural comme mur parlant, mur murmurant / mural comme mur râle, l’autre pas / mais mural comme non commercial» («murale come muro vivente, muro vitale, muro morale / murale come muro parlante, muro mormorante / murale come muro che protesta, oppure no / ma anche murale come non commerciale»).
I DIPINTI murali filmati da Varda nella città degli angeli raccontano le storie di chi li ha realizzati ma danno anche visibilità ai sogni, ai conflitti, alle inquietudini e alle aspirazioni di gruppi etnici e sociali che vivono ai margini dell’American dream: la popolazione nera e chicana, le persone anziane, disoccupate, i manovali, chi fa arte.
Poiché Varda era un’artista femminista che con il suo cinema ha contribuito all’espressione di nuovi soggetti politici, le donne in primis, il suo film «murale» torna alla mente quando si scoprono, nel centro di Bologna, i venticinque poster realizzati da altrettant* artist* per il progetto di arte pubblica «La lotta è Fica». Le stampe sono state affisse a metà giugno lungo via Indipendenza dal collettivo di public art Cheap. Consapevole dei nessi tra strutture di potere, immaginari e spazi urbani, il collettivo ha ideato un intervento volto a dare concretezza e visibilità a un immaginario antirazzista e trans-femminista («la lotta è fica» è uno degli slogan-simbolo del movimento Non una di meno). Come hanno spiegato le ideatrici, «il progetto era in cantiere da gennaio» ma nei giorni delle proteste globali di Black Lives Matter e delle azioni dirette nei confronti di statue, monumenti, placche commemorative o toponomastiche, si è inserito in un particolare momento di riflessione collettiva sull’impatto concreto che le dinamiche di inclusione e di esclusione sociale hanno su oggetti e pratiche simboliche e sulla loro presenza nel corpo della città.
«RAZZISMO e sessismo sono sistemi di violenza interconnessi. Lo sapevi? Ora che lo sai, combatti!», si legge nel poster dell’illustratrice Rita Petruccioli, mentre l’opera della street artist americana Johanna Toruño alias The Unapologetically Brown Series lavora sulla dialettica tra l’immagine serafica di un fiore su uno sfondo rosa confetto e uno slogan teorico non privo di autoironia: «L’eteronormatività è un mediocre concetto coloniale». I poster adottano tecniche espressive diverse, dal collage fotografico al disegno, per criticare la visione binaria del genere, per contrastare le norme sessuali dominanti, per espandere la percezione collettiva delle violenze misogine, razziste, omo- e trans-fobiche. Nei giorni del dibattito sul ddl Zan, questo contributo artistico parla di autodeterminazione sui corpi, di forme di affettività e invita a intrecciare alleanze invece che ampliare divari e alimentare contrasti. «Girls support girls» campeggia sull’immagine, firmata Giorgia Lancellotti, di un accattivante incrocio tra il Frank-N-Furter di The Rocky Horror Picture Show e Rosie the riveter. Non si tratta dunque solo di scardinare e decostruire ma anche di dare visibilità a corpi trans, a corpi scomodi, imprevisti, non bianchi, non etero, non binari, non asciugati, depilati o levigati dall’intervento di Photoshop.
Si tratta anche di spingersi a immaginare forme nuove e ibride di essere viventi: umani e cyborg, umani e animali, umani e vegetali. Come fa la performer Silvia Calderoni con la sua opera «Così è, se mi pare» in cui il suo corpo si fa, coerentemente con un lavoro di ricerca coraggioso attivo da anni, supporto e strumento espressivo di un orizzonte aperto al possibile.
UN PO’ SATIRO, un po’ lupa, un po’ amazzone, un po’ acrobata, l’artista sfoggia con serenità olimpica il proprio nudo frontale con sei capezzoli e un vello pubico a cui il porno plastico imperante ci ha disabituato. Ed è subito scattata la polemica: la senatrice della Lega Lucia Borgonzoni ha dichiarato all’Ansa «non c’è niente di meglio da esporre che i genitali di una donna sul corpo di un uomo con sei capezzoli?». E l’artista a mezzo social ha risposto: «Cara Lucia, ancora non hai visto la foto del retro...». La campagna d’odio social diretta verso l’opera e l’artista ha gridato all’eugenetica, alla follia e alla fantomatica lobby gay senza considerare che, ancora una volta, non si tratta di imporre nuove norme di comportamento o di espressione soggettiva bensì di esprimere nelle forme visionarie dell’arte una riflessione sulla libertà di esistere e di trascendere i confini rigidi degli schemi identitari.
MEDIANTE quest’azione di arte pubblica, Cheap e il gruppo di artist* coinvolt* (tra cui ci sono anche Yole Signorelli alias Fumettibrutti, Maddalena Fragnito, Nicoz Balboa, Chiaralascura) chiariscono che come esseri umani viviamo da sempre e sempre di più in uno spazio liminale in cui natura e cultura si contaminano, in cui i corpi stessi sono costruiti e percepiti all’interno di gerarchie sociali e strutture di potere istituite anche tramite forme di violenza e di discriminazione. È su quelle gerarchie e percezioni sociali che l’arte può dare un contributo importante ed è per questo che ad alcuni fa paura.

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