CULTURA

Quel «tribunale» che setaccia le persistenze coloniali

«Diritti dei popoli e disuguaglianze globali», edito da Altraeconomia
LUCIANA CASTELLINAITALIA

Quattro di luglio. Da quello del 1776, giorno nel quale Jefferson pronunciò la Dichiarazione d’indipendenza, è trascorso molto tempo. Assai meno dal quattro luglio 1976, giorno in cui (la scelta della data non era stata casuale), ad Algeri, fu approvata la Carta che contestava proprio quella che aveva dato i natali agli Stati Uniti d’America: perché se è vero che con quell’atto costitutivo di uno stato che sarebbe diventato il più potente del mondo venivano riconosciuti diritti importanti, e innanzitutto quello di liberarsi dalla sottomissione coloniale, veniva però introdotta l’idea che la libertà potesse esser garantita solo dal diritto alla proprietà privata. Una verità, eccome, ma che ignora un dettaglio: quello di cui faticosamente cerchiamo di far prendere atto, secondo cui la mia libertà trova un limite nella libertà dell’altro. Principio negato dal primo presidente americano che, in sostanza, dava fondamento al capitalismo nascente, ancora alle prese coi lacci medioevali, ma che già innescava quel lungo, sanguinoso processo che ci ha oggi condotti a una diversa ma più paurosa oppressione, la «dittatura elettronica». Versione moderna dei colpi di stato militari.
RIPERCORRERE questo itinerario è di grande interesse. Ce lo consente un libro appena uscito – Diritti dei popoli e disuguaglianze globali (edizioni Altraeconomia, pp. 192, euro 12, a cura di Simona Fraudatario e Gianni Tognoni) – pubblicato dal Tribunale Permanente dei popoli, fondato, proprio quarant’anni fa, a Bologna, su iniziativa di quello straordinario socialista che fu Lelio Basso, grande intellettuale ma al tempo stesso instancabile militante, che aiutò non poco la sinistra italiana a sprovincializzarsi.
I libri celebrativi di anniversari sono di solito noiosi. Questo davvero non lo è, perché ci fa capire cosa è accaduto in questo tempo storico facendo parlare i fatti raccolti dalle 47 sentenze pronunciate dai processi finora tenuti.
Si tratta, come si sa, di un Tribunale di opinione, sprovvisto di potere istituzionale, e però dotato di un grande potere alternativo, quello che gli ha consentito di contribuire in modo decisivo a far capire cosa è accaduto e a rendere evidente l’origine del nostro ordine internazionale in quello coloniale, che lo segna tuttora pesantemente.
NELLA SENTENZA EMANATA dalla corte del Tpp a Venezia/ Padova nel 1992, in occasione dei cinquecento anni dalla Conquista, si documentano con straordinaria efficacia le colpe impunite dell’Occidente, che ha imposto il proprio modello predatore come il punto di arrivo del processo di civilizzazione dell’umanità, un modello presentato come «universale», che pretende di imporre a tutti i propri valori e comportamenti, pubblici e privati, attribuendo agli altri popoli un solo compito: colmare il loro «ritardo», adeguarsi al più presto a un modello presentato come universale ma a definire il quale hanno contribuito esclusivamente gli occidentali (basti ricordare che l’80% delle notizie ci arriva tutt’ora da fonti occidentali).
IL RISULTATO STORICO è sotto i nostri occhi: questa visione «coloniale» è stata alla base delle tante guerre moderne, quelle chiamate «giuste», e dunque giustificate, e che sono state chiamate addirittura «umanitarie», perché mirate a elargire agli altri i vantaggi del nostro modello (così dichiarando tutt’ora democratico uno stato come Israele, e fino a non molto tempo fa persino il Sudafrica, perché «dotati di un parlamento»). E poi guerre e pericolosi ripiegamenti tribali, come risposta fanatica, quasi sempre manovrata da poteri forti, all’arroganza coloniale.
Non mi azzardo nemmeno a indicare tutti i temi che questo libro affronta, ne scrivo solo per raccomandarne calorosamente la lettura.
AVREI SOLO VOGLIA di raccontarvi, ma questa narrazione non può certo aver sede nel contesto di una recensione, la mia personale esperienza come membro della giuria permanente del Tpp. Fra tutte, quella del mio primo processo, tenuto a Berlino nel 1989, perché per la prima volta sul Banco degli imputati erano state portate le grandi istituzioni economiche internazionali, il Fmi e la Bm, fino ad allora conosciute solo dagli specialisti. È lì che iniziò la presa di coscienza da parte dei movimenti della natura dei nuovi oppressori, quella che ha consentito di scoprire la neonata Organizzazione del commercio, bersaglio della grande manifestazione di Seattle nel ’99 (Times magazine la definì la «prima guerriglia on line» per come era stata preparata), e di lì Porto Alegre, «capitale» dei Forum Mondiale no-global.
Non posso non ricordare che proprio a Berlino avevamo chiamato come testimoni al processo due personaggi allora sconosciuti: Aloízio Mercadante, che pochi anni dopo divenne ministro dell’economia del presidente Lula; e Vandana Shiva, che si era appena dimessa per protesta da funzionaria della Banca Mondiale.
E poi, un dono straordinario. Tutto questo è raccontato da due cronisti particolarissimi: Edoardo Galeano e Julio Cortázar.

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