CULTURA

La dose di rischio necessaria per costruire reti di alleanze che rovesciano le ingiustizie

«DECOLONIALITÀ E PRIVILEGIO» DI RACHELE BORGHI
SILVIA NUGARAITALIA

Il potere del mondo accademico si fonda da sempre su quella forma di delegittimazione sistematica dei saperi «dal basso» che la teorica femminista Gayatri Chakravorty Spivak chiama «violenza epistemica». Oggi, i ripetuti proclami in favore di un maggiore dialogo tra università e società rischiano di tradursi più in appropriazione istituzionale che in creazione di spazi per voci e pratiche nuove. Senza contare che la produzione e la trasmissione del sapere sollecitano in modo crescente la competizione e l’(auto)sfruttamento ai danni di persone sempre più precarizzate.
ALLA LUCE DI CIÒ, è possibile, per chi si trova all’interno dell’istituzione universitaria, dare vita a un sapere critico e socialmente trasformativo? In Decolonialità e privilegio. Pratiche femministe e critica del sistema-mondo (Meltemi, pp.266, euro 20), la geografa femminista Rachele Borghi risponde di sì ma a certe condizioni, la prima delle quali è riconoscere che la presunta «neutralità» della scienza è ideologica.
Il nucleo centrale del suo ragionamento, condotto sula scia della propria esperienza di «professora alla Sorbona», parte da una critica alle teorie postmoderne con cui si è formata, per sostenere che «decostruire non basta, bisogna trovare il modo di agire per trasformare il mondo». Ciò è possibile solo se ci si «situa» isolando i privilegi di cui si gode e le oppressioni di cui si può essere complici per poi chiedersi: quali dei miei privilegi posso mobilitare per creare alleanze e complicità che agiscano per resistere a situazioni di sofferenza e ingiustizia? Qual è, in una prospettiva di cura di me, il mio limite e che dose di presa di rischio voglio metterci dentro? L’esempio è Carola Rackete che, partendo dal suo posizionamento di bianca, tedesca, istruita e con il «passaporto giusto», ha scelto di guidare la Sea-Watch 3 e di mettere in salvo le persone a bordo nonostante il divieto del governo italiano di attraccare.
MA NON È QUESTIONE di eroismo individuale bensì di reti e percorsi collettivi di presa di coscienza, cura e militanza. In accademia, per esempio, è possibile adottare modalità pedagogiche che favoriscano l’accessibilità dei saperi, trovare modi per evitare di cannibalizzare il campo e le persone su cui si fa ricerca e condurre politiche della bibliografia e della citazione che non oscurino sistematicamente le minoranze sessuali e razziali. Per Borghi, «l’accademia occidentale deve rinunciare al privilegio di produrre il discorso dominante. Le voci subalterne non devono essere ascoltate ma devono occupare lo stesso posto delle voci dominanti».
«Decolonialità» e «pluriversalismo» sono due termini chiave di un ragionamento che si sviluppa nella cornice teorica del pensiero decoloniale latino-americano senza dimenticare le fondamenta tracciate da Aimée Césaire, Frantz Fanon, Leopold Senghor, bell hooks e Audre Lorde (solo per citare alcuni nomi): «Il pensiero decoloniale non fa riferimento alla decolonizzazione dal colonialismo: fa riferimento alla colonialità. E non riguarda un periodo passato ma ha la forma del presente».
La colonialità, infatti, ha a che fare con l’occupazione e l’appropriazione di spazi di sapere, di potere e di essere mentre decolonializzare significa tenere conto di un mondo «pluriversale», costituito cioè da «un arcipelago di punti di enunciazione, una costellazione di micropolitiche di decolonialità, di laboratori di sperimentazione».
LA DECOLONIALITÀ riguarda la distruzione dei paradigmi egemoni, l’allontanamento dal sapere elitario, il tradimento di classe, il transfemminismo intersezionale, ma anche l’antispecismo perché tutti i corpi, anche quelli non umani, «contano». Riguarda, in sintesi, la costruzione di spazi e forme di resistenza e di «impoteramento», termine con cui già Maria Nadotti nella sua traduzione di Elogio del margine di Bell Hooks traduceva il concetto di empowerment.
Decolonialità e privilegio è un libro di epistemologia critica ma anche una coraggiosa auto-inchiesta in cui l’autrice, ricercatrice e attivista post-porno, racconta come ha sviluppato l’idea di mettere in gioco il proprio corpo per sperimentare, a partire da sé, un utilizzo creativo e non oppressivo delle relazioni tra spazio, potere e responsabilità.
RACHELE BORGHI utilizza la scrittura come strumento di «rovesciamento», di reinvenzione del mondo e delle parole per dirlo. Non è dunque trascurabile la scelta di superare le convenzioni del saggio accademico con frequenti interpellazioni dirette a chi legge (se vuoi saperne di più…), commenti e hashtag ironici (Tu chiamalo, se vuoi, razzismo istituzionale; #è-cosi-che-ce-voi-fa’), incursioni nell’autobiografia, note divulgative, inserti ipertestuali chiamati «voci off» e forme nominali inclusive o che sovvertono il binarismo di genere (persone studenti, autori/e, cittadini/e). Se, come scrive Borghi, «rovesciare l’istituzione universitaria è un progetto a lungo termine», nel frattempo si può scrivere facendo posto alle emozioni, situando il proprio punto di vista, accogliendo l’invito di Gloria Anzaldúa e Cherrie Moraga a «fare della propria schiena un ponte».

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