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La psicosi tra famiglia e prigionia digitale

Verità nascoste
NINA DI MAJO, SARANTIS THANOPULOSITALIA

Nina di Majo: «Nel mio primo film “Autunno” (1999), presentato al Festival di Venezia, affrontavo il tema della quasi psicosi e del matricidio. Alessio, un personaggio lievemente psicotico, sogna di ammazzare la madre come Oreste, perché la madre è una “carceriera” indolente e autoritaria della buona borghesia conservatrice. Il messaggio del film era politico, come nei “I pugni in tasca” di Marco Bellocchio, capolavoro che, in parte, mi aveva ispirato. Il sonno della borghesia conformista, in fondo fascistoide e razzista, è per gli adolescenti il focolaio di una rabbia distruttiva, come in “Joker”, anche quando non è estrema, appariscente. Alessio è affetto da un disturbo e per questo reagisce in modo violento, il matricidio poi non si sa se è vero o immaginario nel film, ma ha un potenziale liberatorio. La violenza in famiglia pare sia molto diffusa, la famiglia è malata, ha bisogno di cure, tu come psicoanalista, a contatto con la sofferenza psichica, cosa ne pensi?».
Sarantis Thanopulos: «La famiglia è il luogo dove il malessere della collettività (il vivere senza fare esperienza vera, appiattirsi sulla ripetitività di comportamenti che distraggono dai propri sentimenti), trova il terreno di cultura più fertile e può far ammalare molto gravemente le persone. Può anche essere, all’opposto, uno spazio di resistenza all’omologazione dove le differenze crescono e dialogano tra di loro. Capita che sia seriamente infestata dalla peste dell’incuria nella Città, capita che diventi uno spazio di bonifica, sano. Le due dimensioni non sono mai nettamente separate, la famiglia non è un luogo idilliaco, ma può essere un luogo caldo, intenso. Più la famiglia è chiusa allo scambio, più i “legami di sangue” distruggono in essa la relazione con l’alterità, più è psichicamente incestuosa, indifferenziata: ridotta a un corpo materno privo di eros e di carnalità, oggetto astratto a cui i figli, privi di padre, sono compulsivamente attaccati. Oreste uccide il materno autarchico, lo spettro fagocitante che ha cannibalizzato le differenze familiari a partire dalla madre stessa. E nell’uccidere il primo, non riesce apparentemente a salvare la seconda, ma la riporta sulla scena della vita (la tragedia, sconvolgendoci, riapre i giochi nel nostro mondo interiore). Il soggetto preda della psicosi uccide la madre per liberarsi degli schemi mentali desoggettivanti che lo opprimono (e di cui lei è agente inconsapevole), ma ci cade ancora dentro. È davvero liberatorio il “sognare” di uccidere la madre come figura totalizzante, per far vivere la donna che ama ed è amata».
Nina Di Majo: «Oggi, vent’anni dopo l’“Autunno”, penso che gli adolescenti sono schiavi dell’interconnessione, dei social network, dei videogiochi. Si sentono meno soli nelle loro stanze prigioni, ma forse sono più soli di prima? Hanno la sensazione falsa di essere parte di un tutto, ma vivono spesso nell’isolamento. Nel mio film l’isolamento era psichico e la famiglia era prigione, oggi è l’architettura digitale la nuova gabbia. La tecnologia è diventata la nostra casa, il vestito della nostra psiche. Stiamo sviluppando dispositivi digitali che sono “macchine dell’intimità”, che offrono l’illusione di una compagnia senza i limiti imposti dall’amicizia e dall’amore. Come crescerà una società nutrita di smog, byte e abuso di sostanze? Costruiamo per i giovani un mondo dove c’è poco spazio per i rapporti umani. Credo ci sia un rischio di psicotizzazione nella dipendenza dalla tecnologia, a te non sembra?».
Sarantis Thanopulos: «È un rischio reale. L’eccesso di digitalizzazione rende confuso il confine tra pubblicato e privato, opacizzando entrambi. Il vestito tecnologico della psiche, di cui parli, è conformante: perverte gli esseri umani in automi, macchine comportamentali, senza casa e senza agorà, e crea un vuoto di senso micidiale».

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