INTERNAZIONALE

Verso «un paese un sistema». Il piano cinese per Hong Kong

Il «parlamento» di Pechino propone una legge che cancella l’autonomia della ex colonia
SIMONE PIERANNIhong kong/cina

Rinviate per coronavirus, le «due sessioni» – l’appuntamento legislativo annuale della Cina – sono cominciate con lo studio di un provvedimento che scuoterà l’ex colonia britannica di Hong Kong. L’Assemblea legislativa cinese, infatti, discuterà la possibilità di approvare una legge sulla sicurezza nazionale che vieterà «la secessione, le attività sovversive, le interferenze straniere e il terrorismo» nell’ex colonia britannica. Si tratta, eventualmente, di una decisione a suo modo storica e foriera di nuove scenari sia per la Cina sia per Hong Kong.
LA LEGGE, CHE PURE Pechino ha provato in anni passati a fare approvare al Consiglio esecutivo di Hong Kong senza mai riuscirci a causa di gigantesche proteste, sarebbe approvata a Pechino e inserita direttamente nella Basic Law, la «Costituzione» di Hong Kong: si tratterebbe di un’ingerenza clamorosa da parte della Cina sull’autonomia della città e finirebbe per minare, e forse per mandare per sempre in soffitta, la gestione «un paese due sistemi» con la quale Pechino ha fino ad oggi regolato il suo rapporto con l’ex colonia.
Se la legge sarà approvata (e considerando le caratteristiche del «parlamento» cinese non ci sono motivi per dubitarne) le proteste cui abbiamo assistito nei mesi precedenti allo scoppio dell’epidemia di Covid, nel momento in cui dovessero ripetersi, rientrerebbero all’interno dei reati contestati dal provvedimento.
LA DECISIONE, sempre sia confermata nei prossimi giorni, rappresenta un’escalation notevole considerando che le manifestazioni che per molti mesi hanno contraddistinto Hong Kong, nascevano dall’accusa nei confronti di Pechino di ingerenze nell’autonomia giudiziaria della città (la possibilità di estradare criminali in Cina) che in confronto alla proposta di legge sembrano ormai davvero poca cosa. È lecito dunque aspettarsi che – nonostante Hong Kong stia ancora combattendo contro l’epidemia – nei prossimi giorni ci saranno nuove proteste e prese di posizione contro Pechino.
La Cina riapre dunque la sua attività legislativa, ridotta a una settimana anziché alle canoniche due, con un atto che rappresenta una sorpresa solo per i tempi, perché le avvisaglie erano note da tempo: dopo aver cambiato il proprio rappresentante nell’ex colonia, infatti, Pechino ha accelerato nella volontà di riportare Hong Kong sotto il più stretto controllo, nell’intento di prevenire anziché essere costretta a reprimere nuove forme di proteste. Il nuovo inviato a Hong Kong, emanazione diretta del presidente cinese Xi Jinping, aveva già avuto modo di ribadire il concetto, sostenendo anche che la Cina non avrebbe avuto problemi, in futuro, a mettere in atto azioni non previste dalla Basic Law, che regola proprio la pratica politica di «un paese due sistemi» messa in ampia discussione con la proposta di legge sulla sicurezza nazionale.
IN CASO DI APPROVAZIONE del provvedimento ci troveremmo sempre più con una Hong Kong in tutto e per tutto «regione» della Cina continentale: un vero incubo per gli abitanti della città che da anni ormai protestano e tentano di fermare questa avanzata cinese. Secondo fonti del South China Morning Post, quotidiano di Hong Kong ma di proprietà cinese (di Alibaba), primo giornale a dare la notizia, «la nuova legge vieterebbe tutte le attività sediziose volte a rovesciare il governo centrale e le interferenze esterne negli affari di Hong Kong». Una fonte avrebbe rivelato al quotidiano che «sarebbe stato impossibile per il Consiglio legislativo della città approvare una legge sulla sicurezza nazionale ai sensi dell’articolo 23 dato il clima politico e quindi ci si è rivolti Congresso nazionale del popolo, il legislatore del paese, per assumersi la responsabilità».
SI TRATTA, NATURALMENTE, di un atto in grado di avere significative ripercussioni anche a livello internazionale, innanzitutto con gli Stati uniti che in questi giorni stanno lavorando a una risoluzione che metterebbe in bilico le relazioni commerciali con l’ex colonia nel caso non fosse garantita «sufficiente autonomia».

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