CULTURA

Trotula, l’autorità medica fa scuola

Un percorso di letture su guaritrici, profetesse e differenza di genere
MARINA MONTESANOITALIA

«La storia delle donne e di genere ha mostrato come il problema del potere, che resta centrale nella riflessione storiografica generale tutt’ora più attenta alla dimensione politica che a quella sociale e culturale, non possa ridursi quanto alle donne al solo rapporto asimmetrico fra i sessi, fatto di dominio o oppressione. In tal modo si ignorano interdipendenze, condizionamenti reciproci, complementarità tali da far emergere spazi e dimensioni del ruolo autonomo e perfino autorevole femminile». Così scrive Marina Caffiero nell’Introduzione al suo nuovo libro, Profetesse a giudizio. Donne, religione e potere in età moderna (Editrice Morcelliana, pp. 172, euro 17), sottolineando la necessità ma anche la possibilità, ormai, di diversificare lo sguardo rispetto all’universo femminile e alle sue relazioni.
NON È UNA STORIA univoca, tutt’altro: e, nonostante vi sia il luogo comune persistente che accomuna ad esempio donne e medioevo in un binomio evocativo di chiusure e misoginia, è invece vero che spesso rispetto all’età classica le donne godevano di maggiori diritti e di accresciute possibilità. Pensiamo al campo delicato della medicina tradizionale, nella quale l’esperienza delle donne molto ha contato: certo, per una Ildegarda di Bingen che scriveva tanto di mistica quanto di cure fisiche, c’è un gran numero di anonime guaritrici e levatrici indispensabili, ma anche circondate dal sospetto per la loro familiarità con le fasi liminali della vita nonché per la pratica con le erbe e le formule necessarie nella loro attività.
Non è anonima Trotula, sebbene la sua figura sia avvolta dal mistero e persino la sua identità sia stata messa in dubbio. Propende per la sua esistenza reale Piero Greco, Trotula. La prima donna medico d'Europa (L’asino d’oro edizioni, pp. 208, euro 15), il quale ci conduce nell’affascinante ambiente della Scuola salernitana che potremmo definire un prototipo di università sorto precocemente intorno alla città campana fra X e XI secolo; non si trattava ancora di un vero e proprio istituto universitario quanto piuttosto di una scuola di grande fama in cui si studiavano medicina e filosofia, traducendo in latino, dal greco e dall’arabo, testi come quelli di Ippocrate, Galeno ed Avicenna: si era in un periodo nel quale tali studi cominciavano a rifiorire in Europa grazie alla vicinanza con il mondo ebraico e islamico che potevano contare su forti presenze in Italia meridionale. A fare della scuola salernitana un’università avrebbe provveduto Federico II, che nelle Costituzioni del 1231 instituì esami di laurea pubblici; prima di quella data non abbiamo notizie certe sul suo funzionamento. All’interno della scuola, dall’XI secoli si conosce la presenza delle mulieres salernitanae, fra le quali appunto Trotula. Altri nomi che si sono conservati sono Albella, Mercuriade, Margherita, Alessandra e, più tardi, Rebecca Guarna e Costanza Calenda. Trotula sarebbe nata nella prima metà dell’XI secolo; a lei sono attribuiti alcuni trattati fra i quali è possibile riconoscere come autentico la Practica secundum Trotam, che contiene indicazioni ginecologiche, ma anche suggerimenti pratici contro varie patologie e incidenti da avvelenamento rivolti alla cura tanto di uomini quanto di donne.
LA FAMA di Trotula avrebbe varcato rapidamente i confini italo-meridionali, poiché di lei parlano in tanti, da Rutebeuf a Chaucer. Insomma, se dei dubbi persistono sul suo conto riguardano i dettagli dell’esistenza, non ve ne sono sull’apporto femminile alla grande tradizione medica salernitana. Fra i testi appartenenti a questa scuola alcuni contengono consigli sull’aspetto delle donne: diciamo un contraltare al De cultu feminarum di Tertulliano, testo fortemente svalutativo del genere femminile. Il sospetto nei confronti del lusso è una costante nella società, soprattutto di pari passo con l’arricchimento, e anche se non appartiene soltanto alle donne, spesso è messo in connessione con loro, come mostra bene Maria Giuseppina Muzzarelli in Le regole del lusso. Apparenza e vita quotidiana dal Medioevo all’età moderna (il Mulino, pp. 278, euro 24, 39 illustrazioni a colori). Anche in questo campo, però, ci sono delle specificità oltre la continuità: «La produzione di leggi suntuarie, e cioè di norme emanate in tutte le città d’Italia, d’Europa e non solo, destinate a regolare il lusso, è stata costante per almeno cinque secoli a partire dal Duecento. Questa volontà di usare lo strumento del diritto per incidere sui comportamenti quotidiani, tanto dei singoli come dei gruppi, ha contribuito a fondare – analizzando, soppesando, limitando, concedendo e proibendo – una coscienza dei consumi».
Si tratta di una peculiarità che si comprende alla luce di una serie di elementi che Muzzarelli mette bene in evidenza: dalla politica alla storia del gusto, dalla vita sociale (con i mutevoli rapporti fra ceti, o meglio ordines come si dovrebbe dire in relazione al periodo) al peso delle campagne di moralizzazione. A queste ultime appartengono i falò delle vanità che segnano il tardo medioevo, ordinati da celebri predicatori quali Bernardino da Siena o Girolamo Savonarola. È dunque un viaggio insolito in un medioevo non abbastanza noto, aiutato da un ricchissimo apparato di immagini che arricchiscono il libro.
NEGLI STESSI SECOLI in cui i moralizzatori degli Ordini mendicanti portavano avanti le loro battaglie, anche l’universo religioso femminile conosceva un rinnovamento profondo del quale il profetismo è uno dei segni più forti. La profetessa era nel mondo cristiano una figura nota: dalla già citata Ildegarda a Caterina da Siena, grandi pilastri della Chiesa avevano esercitato tale funzione; tuttavia, a cavallo fra tardo medioevo e prima età moderna, i teologi guardavano con crescente sospetto alle manifestazioni profetiche femminili; basti pensare alle rivelazioni e alle visioni di Giovanna d’Arco: provenivano da emissari divini oppure diabolici? Su questo si era giocato tanto il processo di condanna per eresia quanto quello di riabilitazione, entrambi segnati da precise volontà politiche, ma non per questo meno significativi di un panorama più ampio: secoli di demonomania, nei quali la paura della presenza e dell’azione del diavolo nel mondo erano crescenti e la percezione delle manifestazioni di pietà femminile mutava, inducendo a una maggiore necessità di controllo.
MARINA CAFFIERO nel già citato Profetesse a giudizio traccia un quadro di questo fenomeno, che conosce un discrimine potente con la Controriforma, che in questo come in quasi tutti i campi della vita cristiana rappresenta una svolta rispetto al passato: «Il modello tridentino oscurò dunque la profezia e tollerò le espressioni di esaltazione femminile solo nel recinto chiuso, controllato e legittimante dei conventi dove, paradossalmente, nonostante le regole e i divieti divenne esplosiva nel corso del Seicento». A un vero e proprio affaire, quello delle «profetesse di Valentano» (un paesino del Viterbese), che si dipana nel 1774 è dedicata la parte centrale del testo, un caso di studio condotto su fonti inedite, anche in questo caso accompagnato da immagini scelte con cura, che conduce il lettore verso un’altra svolta di rilievo, ideologica e spirituale, avviata dal cattolicesimo tra Settecento e Ottocento.

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