VISIONI

Agostino Ferrente, un premio per i ragazzi dimenticati di Napoli

Parla il regista di «Selfie», ambientato a Rione Traiano, miglior documentario ai David di Donatello 2020
GIOVANNA BRANCAitalia/napoli

«Se avessi avuto la possibilità di ringraziare avrei mandato un pensiero ai ragazzi protagonisti del mio film, che sono quelli più penalizzati da questa situazione»: dall’emergenza sanitaria, e dal conseguente confinamento in cui ci troviamo ormai da mesi. Agostino Ferrente, vincitore con Selfie del premio al miglior documentario ai David di Donatello di domenica scorsa - la prima edizione senza pubblico ai tempi del lockdown - pensa a Pietro e Alessandro, i due ragazzi di Rione Traiano a Napoli protagonisti del film.
«SELFIE» lo hanno girato loro stessi, con degli smartphone con cui riprendono la loro vita quotidiana in un quartiere dove gli adolescenti come Pietro e Alessandro hanno pochissime prospettive oltre a diventare manovalanza per la camorra. «Si parla tanto della didattica a distanza - aggiunge Ferrente - ma questi ragazzi neanche hanno un computer, hanno passato il lockdown in seminterrati umidi dove internet non arriva».
PIETRO, come sognava nel film, ha trovato lavoro come parrucchiere - e come tutti i suoi colleghi riprenderà a lavorare dal primo giugno - mentre Alessandro, che fa il barista, non ha risposto al telefono quando il regista lo ha chiamato per annunciargli la vittoria: «Stava dormendo: lui alle cinque si alza per andare ad aprire il bar ora che c’è la possibilità di preparare le cose da asporto. Ha saputo del premio la mattina dopo, ed è scoppiato a piangere».
Oltre a loro, Ferrente voleva dedicare un pensiero anche all’amico di Pietro e Alessandro scomparso nel 2014: Davide Bifolco, ucciso dal proiettile di un carabiniere che gli ha sparato mentre andava in motorino con gli amici. «Avrei ricordato ai milioni di telespettatori che questo premio si chiama come il ragazzino di 16 anni a cui il nostro piccolo film è stato dedicato, Davide, dimenticato e poi ucciso da uno Stato che non sa crescere e proteggere i suoi figli più deboli».
Felice del premio ma amareggiato quindi dal fatto che alla categoria documentario non sia stato dedicato neanche il tempo per dei ringraziamenti, Ferrente si interroga sulla penalizzazione del racconto della realtà nel nostro paese. «In Italia purtroppo il documentario resta una cenerentola nel sistema cinema, all’interno del quale io credo che rappresenti il terreno più vivo di ricerca e innovazione dei linguaggi e delle tecniche, oltre che di esplorazione dei sentimenti che si manifestano più in profondità nelle nostre società. Un ambito in cui più che altrove ci si pone domande, si fa ricerca, si sperimenta. Ma che è sempre più difficile riuscire a fare». E, aggiunge: «Non parlo solo del mio film: in quello di Franco Maresco viene affrontato il problema della mafia, nel documentario su Caligari (Se c’è un aldilà sono fottuto, ndr) si racconta la tossicodipendenza, la Ostia di Amore tossico. E anche il documentario su Francesco Rosi (Citizen Rosi, ndr) racconta la storia d’Italia, lo stragismo, il via libera alla mafia nel dopoguerra purché fermasse il comunismo».
E POI CI SONO i ragazzi dimenticati dallo Stato come i protagonisti di Selfie: «Quelli che abbandonano la scuola perché è la scuola che li abbandona a se stessi, quelli che non hanno genitori laureati che li possono aiutare a fare i compiti a casa e che non possono permettersi di pagare per loro le ripetizioni private. Quelli che a 13 anni sognano di diventare calciatori, ma poi uno ci riesce e 1000 finiscono dall’unico datore di lavoro interessato a dargli una mano: la criminalità. Dire queste cose in diretta sarebbe stato un richiamo alla realtà dura, vera». All’indomani della vittoria ai David, Ferrente rivolge quindi un appello al sindaco di Napoli, Luigi De Magistris: «Spero che il sindaco, che ha espresso giudizi lusinghieri sulle opere premiate, realizzate a Napoli o da artisti napoletani, accolga la mia proposta di conferire le chiavi della città ad Alessandro, Pietro e i tanti ragazzi delle periferie, che amano Napoli ma spesso non si sentono amati. Le chiavi di solito vengono assegnate alle celebrità per farle sentire ’a casa’. Ecco, bisognerebbe far sentire anche questi ragazzi un po’ di più a casa loro».

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