CULTURA

Nell’alfabeto del dialogo

Il 2 maggio 1997 moriva il grande educatore: un omaggio all’autore di «Pedagogia degli oppressi»
PAOLO VITTORIAbrasile

«Quando abbiamo chiesto all’imputato se la somiglianza tra il suo metodo e quello degli educatori di Hitler, Mussolini, Stalin risiedesse nel fatto che dei gruppi nazisti in Germania, fascisti in Italia, marxisti in Russia e di una sinistra indigena e senza orientamento in Brasile, abbiano costituito la base di un monologo velenoso che mostra una realtà prestabilita e massifica l’uomo, trasformandolo in cosa, il deponente ha risposto che concorda con le somiglianze tra i metodi utilizzati da Stalin, Mussolini, Hitler che diminuiscono l’uomo e lo massificano, ma che giammai accetterebbe qualsiasi minima somiglianza tra questi e il suo metodo».
A LEGGERE QUESTO VERBALE della giunta militare del Brasile del 1964 sembra davvero che si parli di un criminale con in mente un piano di omologazione dell’essere umano in nome di una massificazione del pensiero. Un soggetto pericoloso da tenere a bada e da cui stare alla larga perché insidioso, rischioso, temibile. Ma qual è in effetti l’oggetto del reato di quest’educatore? I fogli che gli sono mostrati lo spiegano bene: «roccia», «farina», «terra», «siccità», «zappa», «pioggia», «casa», oppure frasi come «il mattone è fatto di argilla» o nientedimeno che «il popolo è lavoratore», «dibattito», «classe».
Certo, difficile difendersi da accuse, o meglio, da capi di imputazione così ben fondati, rigorosamente argomentati, eppure – facendo leva sui suoi principi pedagogici – l’imputato provò a rispondere spiegando con calma che «secondo il carattere del metodo, i partecipanti ai circoli di cultura - gli analfabeti - non dovevano essere indottrinati, ma incoraggiati dalle situazioni a discutere liberamente senza che il coordinatore imponesse le proprie idee».
PRIMA DI DEDICARSI all’educazione, aveva studiato legge, mai avrebbe immaginato che l’unica causa impugnata sarebbe stata proprio la sua, con la missione impossibile di far ragionare una giunta militare in vena di deliri. In effetti, la sentenza era già scritta: prigione ed esilio. Forse Paulo Freire non avrebbe neanche immaginato di scrivere qualche anno dopo Pedagogia degli oppressi, il cui discorso, la cui proposta, la cui sintassi politica ha molto a che vedere con quelle parole. Pagine di un libro che hanno segnato il pensiero critico, rappresentano per donne e uomini un punto di riferimento per un’azione educativa in favore di una prassi pacifica e culturale di emancipazione degli oppressi. La prima edizione in Italia fu pubblicata grazie all’impegno di Linda Bimbi, a cui va la gratitudine di tutti noi.
In esilio Paulo Freire ci ha trascorso quasi venti anni con l’accusa formale di sovversione e di voler impiantare il socialismo sovietico in Brasile. Andando oltre la tragica comicità delle accuse, ci chiediamo: perché quelle parole davano così fastidio a questo grottesco tribunale? Fino a che punto la parola può essere considerata un’arma rivoluzionaria?
A darci una risposta è Nita Freire, moglie e compagna di Paulo negli ultimi anni della sua vita. «Penso che il dialogo per Paulo sia tattica e strategia. La tattica è mettermi alla pari con l’altro, io mi completo con te e tu ti completi con me; la strategia è la fase in cui posso costruire con quest’altra persona una conoscenza inedita. Perché siamo due esseri, due soggetti, non un soggetto e un oggetto. Ecco la ragione del suo esilio: il dialogo in Paulo è una tattica che realizza la più ampia strategia di essere soggetti in grado di rendere una società più giusta, solidale ed egualitaria».
MARCOS GUERRA collaborava con Freire al tempo delle prime campagne di alfabetizzazione nel nordest del Brasile: era un giovane studente, anche lui perseguitato e incarcerato, poi costretto all’esilio. Ci testimonia il carattere dialogico della pratica di alfabetizzazione: «una base del metodo era lavorare con istruttori, monitori, coordinatori che avessero una preparazione perché si sviluppassero situazioni di apprendimento secondo il dialogo socratico, ossia persone che apprendono ad ascoltare. Ho vissuto, dopo l’esilio, in Africa ed ho scoperto che gli africani detestavano chi arrivava e non si ricordava che ha solo una bocca, quando ha due occhi, due orecchie, ossia, bisogna ascoltare e vedere molto prima di parlare, e dicevano ancora che ci sono tanti pori per percepire una situazione prima di arrivare a fare un discorso senza nemmeno sapere chi ti sta ascoltando e qual è il contesto della situazione».
CHI NON PERDE occasione di parlare, invece di restare in silenzio, è ancora lui, Jair Bolsonaro, che in una recente dichiarazione ha definito Freire un energumeno, idolo della sinistra e responsabile del fallimento educativo del Brasile. Non pretendiamo certo che legga una delle sue opere, ma a dire il vero, gli basterebbe una citazione. Descrivendo la condizione della coscienza ingenua, Freire la introduceva così: «L’ingenuo è fragile nella discussione dei problemi. Parte dal principio che sa tutto. Pretende di vincere la discussione con argomentazioni fragili. È polemico, non vuole chiarire. La sua discussione è fatta più di emotività che di criticità: non cerca la verità… litiga il più possibile per ottenere il più possibile. Ha un forte contenuto passionale. Può cadere nel fanatismo o nel settarismo. Presenta forti comprensioni magiche».
Se Bolsonaro avesse letto anche solo questa affermazione, si sarebbe specchiato in un formidabile ritratto. Mediante un semplice processo di identificazione gli sarebbe stato facile assimilare il concetto di coscienza ingenua. Non possiamo pretendere, però, che intenda allo stesso modo quello di coscienza critica, che sembra essergli più estraneo: «Gli oppressi hanno bisogno di acquisire la coscienza critica dell’oppressione nella prassi della ricerca. Questo è uno dei problemi più gravi che si pongono nel processo di liberazione. Purtroppo la realtà di oppressione agisce come forza di immersione nelle coscienze».
NITA FREIRE analizza il motivo del perpetuarsi di questo astio da parte della destra nei confronti del marito: «In Brasile la divisione tra ricchi e poveri, possidenti e non possidenti, padroni e schiavi, oppressi e oppressori prevale ancora nella mentalità di oggi. L’elite pensa di sapere tutto e crede che i poveri siano una classe orribile, di vagabondi che non sanno nulla». Mentalità diametralmente opposta a chi invita a porsi nell’umiltà di entrare in dialogo rispettando e valorizzando le conoscenze di chi è stato storicamente escluso: «Se un gruppo di contadini discute sul raccolto, dobbiamo stare attenti alla possibilità che loro sappiano molto più di noi», scrisse Freire.
Vivendo e apprendendo, questo esule «energumeno», ha disseminato le sue idee dal Cile agli Stati Uniti, dalla Svizzera a Paesi africani in lotta contro il colonialismo portoghese, passando anche per l’Italia dove ha collaborato all’esperienza delle centocinquanta ore nelle fabbriche. Ha conseguito quasi quaranta titoli honoris causa. Tornato in Brasile, dopo la caduta della dittatura, si è impegnato a favore della democratizzazione del suo Paese, sostenendo i movimenti sociali difendendo la scuola pubblica, promuovendo l’educazione popolare.
«LEGGERE LA PAROLA, leggere il mondo», diceva. A lui dobbiamo molto perché ci ha insegnato una lettura del mondo inedita, critica, dialogica. Che senso ha imparare a leggere e scrivere se non si comprende quello che c’è scritto? Parole semplici come casa, acqua, mattone erano pericolose e sono state incriminate per il significato che attraverso di loro si andava costruendo. Dalla parola «mattone» contadini, operai, allevatori iniziarono a discutere di costruzione, lavoro e finirono a leggere la legislazione sul lavoro, scoprendo di avere diritti e doveri.
La saggezza è nell’interpretazione, nel significato che consegna alla parola e questo non è mai piaciuto ai sistemi autoritari, siano essi militari, di neoliberismo sgangherato o di caporalato, a ogni latitudine.

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