A un mese o poco più dalla scomparsa di Manu Dibango se ne va con Tony Allen un altro artista di quella generazione - era nato a Lagos nel 1940 - che «ha cambiato la storia della musica africana», come ha twittato corto Angelique Kidjo, che del suo drumming ha approfittato in tempi recenti. Definizione che fa il paio con l'iperbole di Brian Eno, che sentiva in Allen «il più grande batterista mai esistito», buttando lì anche un «forse» a scopo decorativo. E con quanto gli riconosceva Fela Kuti, padre biologico di un genere che «non sarebbe mai nato senza Tony Allen».
FELA KUTI E TONY ALLEN, è bene ricordarlo oggi, sono stati yin e yang dell’afrobeat nigeriano, il «davanti» e il «dietro» di una creatura ibrida e ribelle, ritmologia e tradizione innodica yoruba dentro un nuovo contesto urbano, politico, culturale, ri-connesse alle musiche della diaspora, il jazz in primis, per diventare standard globale. Da Ife a Lagos.
I due s’incontrano nel 1964, Nigeria indipendente ma ancora vergine in termini di golpe e guerre civili. La musica hi-life, ancorché venata di un’inconsapevole, struggente melanconia, inebria gli anni della libertà con un afro-ottimismo tutto da ballare. Da lì, con la prima band alle dipendenze di Fela, i Koola Lobitos, i due si aprono la strada verso l’afrobeat a forza di sciabolate di ottoni e infuocati penegirici politici che trovano una quadra in quella macchina del ritmo che «non si ferma mai», che tutto regola anche nei silenzi, nelle fratture ricorrenti che lasciano defluire l’energia accumulata.
PRECISIONE E FLUTTUAZIONE. Come un’orchestra di tamburi parlanti e shekere, forza primigenia che non ha nulla di muscolare, che sta tutta nelle sfumature e nelle microvariazioni. La batteria dell’autodidatta Tony Allen sarà dunque una tigre nel motore degli Africa ’70, la big band storica di Fela Kuti, per una trentina di dischi. Quando se ne va lo fa per questioni di royalties e di buon senso, mentre il leader maximo scatena risse con i generali che si succedono al potere e dissipa energie girando il mondo con una numerosa tribù di cui nessuno comprende l’utilità. Fela incassa il colpo ma la sua musica non se ne farà più una ragione.
Tony Allen intanto, come la macchina che guida seduto dietro al suo strumento, non si ferma più. Si fa in quattro, come gli arti di cui dispone per stratificare ritmi autonomi e interconnessi. Accanto a una rinnovata produzione della sua musica dà in pasto il sapere poliritmico di cui è unico depositario a tutta una serie di dj, giramanopole e cantanti pop, lasciando che intorno alla sua batteria nascano interi collettivi, come l’Allenko Brotherhood Ensemble, ai quali spesso basta aggiungere una linea di basso e qualche effetto per ottenere la pietra angolare dei loro gusti musicali.
DA DAMON ALBARN, che già con i Blur cantava «Tony Allen mi fa ballare un sacco» (Music Is My Radar) e in futuro coinvolgerà il batterista nigeriano in diversi progetti, fino a comporre e cantare con lui in Go Back la tragedia dei migranti africani che approdano a frotte sull’isola di Lampedusa. Il suo ritmo perpetuo esce dalle canzoni di Charlotte Gainsbourg, sterza verso l’afropunk sperimentale dei paulistani Metà Metà, riverbera nella testa dell’ex guru della tecno Jeff Mills. Sincronizzato ai tempi senza bisogno di muoversi. E senza lasciare ad alcuno il tempo di farne l’oggetto di un revival.