CULTURA

Il ritorno del Raffaello «oscurato»

RINASCIMENTO - Intervista con Matteo Lafranconi, direttore delle Scuderie del Quirinale e curatore della mostra
ARIANNA DI GENOVAITALIA/ROMA

A porte chiuse, dietro ogni museo, sito archeologico o luogo espositivo c’è un gran fervore di lavori. Dopo due mesi di buio, il 18 maggio si riapre, accogliendo un pubblico a piccole dosi e rispettando le nuove norme dettate dall’emergenza ancora in corso. Il mondo della cultura è stato uno dei comparti - insieme a quello turistico e dello spettatolo dal vivo - che ha sofferto di più nel suo insieme. E la ripartenza non è priva di incognite: non tanto sanitarie (perché si applicheranno le necessarie misure), ma economiche. Gli slogan governativi come «vogliamo creare una Netflix della cultura», una piattaforma per far fruire a pagamento il patrimonio italiano, non attingono certo a un’idea strutturale o a una soluzione di sistema in grado di immaginare una rete di tutela sempre attiva. Fra le molte mostre-evento che sono rimaste «invisibili», c’è stata quella dedicata a Raffaello presso le Scuderie del Quirinale. Rassegna simbolica, che inaugurava le celebrazioni del cinquecentenario, ha avuto il triste destino di svelarsi ed eclissarsi in un batter d’occhio, conservando nel silenzio delle sue sale vuote capolavori assoluti giunti da tutto il mondo.
Matteo Lafranconi dirige le Scuderie del Quirinale e insieme a Marzia Faietti (con il contributo di Vincenzo Farinella e Francesco Paolo Di Teodoro) ha curato l’esposizione, accompagnata anche da un poderoso volume edito da Skira in cui a ritroso - dalla morte alla nascita - si ripercorre la fulgida carriera del «divin pittore».
La mostra di Raffaello ha rappresentato uno sforzo enorme per studi, prestiti di opere e, non ultimo, finanziario; purtroppo ha dovuto chiudere poco dopo la sua inaugurazione. Quali sono state le maggiori preoccupazioni in questo periodo?
Come chiunque in questo periodo di inedita emergenza, le preoccupazioni sono state tante e l’indubbia frustrazione per la chiusura della mostra è stata ben presto superata dalla soverchiante preoccupazione per la gravità globale della crisi e per il suo carattere di sistema. È stato subito urgente, tuttavia, gestire le questioni organizzative e procedurali che la chiusura improvvisa implicava, in primo luogo sotto il profilo della prevenzione dei rischi. Non sono un tipo apprensivo ma sfido chiunque abbia la responsabilità della custodia di un patrimonio di quell’importanza e di quel valore a non mettere al primo posto lo scrupolo della loro sicurezza.
La messa in atto di ogni possibile buona pratica, anche al di là degli stretti impegni contrattuali, è venuta prima di altre considerazioni e, confesso, ha aiutato a distogliere il pensiero dallo sconcerto dei primi giorni e dalla delusione per la non fortunata sorte della mostra. Un museo, così come una sede espositiva, anche durante la chiusura è lontano dall’essere un organismo in letargo.
Il 18 maggio riapriranno i luoghi di cultura, fra cui siti archeologici, musei e mostre temporanee. Come vi state organizzando?
Appare evidente che l’unica via per dare una seconda chance alla mostra di Raffaello (la cui chiusura era prevista per il 2 giugno), sia quella di pensare a un’estensione in proroga della sua durata. Le Scuderie del Quirinale sono attualmente impegnate in una puntuale verifica dell’orientamento dei numerosissimi musei prestatori rispetto alla richiesta di un prolungamento del prestito. È un tema delicato che chiama in causa molte variabili, ma stiamo riscontrando un sostegno fuori dal comune non solo da parte delle istituzioni italiane, più naturalmente partecipi delle sorti di un’iniziativa a carattere nazionale, ma anche di tutte le istituzioni internazionali coinvolte, la cui solidarietà deriva anche dalla condivisione diretta delle circostanze eccezionali che il comparto dei musei sta attraversando in tutto il mondo.
In mezzo alle difficoltà generali, la dimensione globale del fenomeno ha consentito la nascita di un inedito sentimento di vicinanza, di appartenenza a una comunità identicamente sofferente e allarmata disposta a spendersi più di prima nello sforzo di remare insieme e nella stessa direzione.
Ritiene che dalle nuove regole possa nascere anche un diverso concetto di turismo, di fruizione dell’arte?
La necessità di un severo contingentamento degli ingressi in ottemperanza all’obbligo del distanziamento interpersonale porterà, oltre che a una modifica delle prassi sociali, anche a una drastica riduzione dei ricavi, nel breve come nel medio termine; l’inevitabile incidenza che questo aspetto avrà sulla concezione stessa dei programmi culturali sarà il terreno obbligato su cui giocare la sfida del futuro di questo settore.
La crescita esponenziale del fenomeno del turismo e le controverse trasformazioni della sua antropologia hanno certamente contribuito a portare il fenomeno generale della fruizione artistica a un limite strutturale di cui, mi pare, tutti si rendano conto: troppo aggredite le città d’arte, troppo affollati i grandi musei rispetto all’agonia dei piccoli centri, dei musei «minori» e del patrimonio diffuso. Ma la complessità globale del fenomeno ha dato spesso la sensazione di un sistema impossibile da fermare. Tra i tanti elementi di straordinarietà negativa della presente congiuntura ritengo sia positiva la possibilità di ragionare, per una volta a meccanismo fermo, sulla salute del sistema e sulla sua tenuta nel lungo termine. Vedo insomma un’occasione irripetibile per liberare energie finora inibite dall’inarrestabilità di un ingranaggio che lasciava poco spazio a nuove idee per una svolta.
Il nostro patrimonio è spesso al centro del dibattito culturale ma viene poi altrettanto velocemente dimenticato o, peggio, maltrattato. Secondo lei, quale sarebbe una giusta «visione»?
Va combattuto con ogni mezzo, a mio parere, un inedito rapporto di proporzionalità diretta, paradossale particolarmente nel nostro paese, tra bulimia di alcuni consumi culturali e inadeguatezza formativa. Sono sempre più inaccessibili, per un fruitore medio del patrimonio artistico, i fondamenti della conoscenza che ne garantiscono la comprensione (storia, geografia, filosofia, religione, musica) senza i quali il presunto godimento della bellezza rischia di diventare un bisogno indotto e inautentico; un bisogno che si traduce in voracità iniziale sfociante ben presto in noia. Negli anni, per me, è andata perdendosi la certezza stentorea sulle responsabilità di questo fenomeno, responsabilità che oggi vedo assai intricate e ripartite. Fatico a capire, di fronte alla complessità della società contemporanea, quali siano i reali margini di movimento per porvi rimedio. Ma anche ammettendo un certo relativismo, credo nell’eterna bontà della ricetta competenza-impegno-responsabilità, da applicare in qualunque posizione ci si trovi, e ai deleteri effetti della ricetta contraria (incompetenza-disimpegno-irresponsabilità), spesso presente in filigrana dietro agli infiniti slogan con cui oggi si liquidano molte questioni della cultura nel dibattito mediatico.
Il cinquecentenario di Raffaello arriva dopo quello dedicato a Leonardo, il grande sperimentatore...
Benché inevitabile, la contiguità dei due anniversari, entrambi così straordinari e irripetibili, non ha giovato né all’uno né all’altro, sia per la difficoltà di amministrare l’attenzione pubblica e istituzionale su due programmi celebrativi distinti che, se distanziati, avrebbero avuto garanzia di una visibilità più lunga e durevole, sia per la difficoltà di svolgere quei programmi in chiave sinergica, stante la complessa assimilazione delle due figure a un’idea unitaria di Rinascimento da parte di un pubblico medio. La morte di Leonardo a sessantasette anni in una remota enclave della corte di francese assume un significato molto diverso dalla morte di Raffaello a trentasette anni a Roma, nel cuore pulsante della nuova capitale del Rinascimento. La scomparsa di Raffaello all’apice della gloria personale e al centro di un processo culturale trainante rispetto all’intera cultura europea ci ha convinti a costruire la mostra sulla base della forza simbolica di quella morte, facendone l’inizio di un percorso che risale a ritroso il corso di un’avventura artistica à bout de souffle.

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