VISIONI

«Checkpoint Berlin», i fantasmi della città

BEATRICE FIORENTINOITALIA

Berlino e i suoi fantasmi. Gli eterni fantasmi di Berlino. Il Muro, persino nella sua assenza, che comunque risuona echi di dolorose separazioni, distanze, fratture mai sanabili. In un tempo incerto, sospeso tra passato, presente e futuro. Perché la Storia insegna che tutto torna. In un perpetuo movimento circolare. Beffardo. Crudele. Dopo la prima mondiale a gennaio, nella sezione Bright Future del Festival di Rotterdam, Checkpoint Berlin sarebbe dovuto uscire in sala la prossima settimana , ma il prolungarsi della lunga quarantena che ci vede tutti costretti a casa impedisce l’accesso al grande schermo. Così, nell’attesa di poterlo vedere prossimamente al cinema, ci pensa Fuori Orario – cose (mai) viste a rimediare, di concerto con Rai Cinema e Boudu/Passpartout, mandando in onda il film su Rai3 la notte del 17 aprile all’01.10.
DIFFICILE stabilire con precisione la natura filmica di questo strano oggetto che porta la firma di Fabrizio Ferraro (di cui sempre Fuori Orario aveva trasmesso Gli indesiderati d’Europa), a quale categoria esso appartenga, ammesso che sia davvero necessario (o possibile) catalogare le visioni per rigidi comparti. Se si tratti, davvero, come in effetti è, di un documentario d’autore, dal passo ampio, libero, aperto. O se in realtà la storia che appartiene a un regista di cui non viene fatto il nome, a Berlino per la proiezione di un suo film, preso a fare i conti con il passato del suo paese e della sua famiglia mentre cammina per le via della città, come riferisce la sua assistente, sia nient’altro che un pretesto. Un punto di partenza. Per riflettere di muri, di confini e di desiderio di fuga. E per ricostruire l’atmosfera di quei giorni, i giorni del Muro, quando nell’agosto del 1961, in piena Guerra Fredda, la città di Berlino si ritrovò divisa in due blocchi opposti per trenta lunghi anni.
Ma in fondo che importa? Sapere se si tratti di verità, finzione o di una semplice possibilità tra un milione. Perché di storie come quella di questo regista, o dello zio impazzito per amore e sparito nel nulla (forse una leggenda), di passeur, di sogni perduti, di interminabili tunnel clandestini che collegavano l’Est e l’Ovest di Berlino e di vite spezzate, se ne contano a piene mani. Come quella di Günter Liftin («il povero Günter Liftin», rievocato nel film), prima vittima delle truppe di frontiera della Germania dell’Est, freddato con diversi colpi di arma da fuoco nelle acque dello Sprea mentre cercava di raggiungere a nuoto la riva opposta. O di destini segnati. Come quello di Hagen Koch, cartografo militare, uomo comune nella Grande Storia cui, a soli 21 anni, fu affidato il gravoso compito di tracciare il percorso del Muro.
In breve tempo lo spettatore è trascinato dentro a un flusso senza ritorno, onirico e avvolgente, come trasportato dalla risacca o cullato in un vortice in cui si intrecciano memorie personali, materiali d’archivio, fantasie e ricordi. A ricostruire la cronaca di quel breve lasso di tempo in cui la Germania ha cambiato il corso della Storia. E a mettere in piedi una riflessione universale che vada ben al di là della cronaca.
IL MURO, non come «presenza tecnica», ma nella sua accezione filosofica. Guardare al Muro, nella sua incombenza metafisica, per poter guardare indietro. Perché, ci insegna chiaramente Thomas Heise nella sua recente opera maestra Heimat is a Space in Time, la memoria è strumento indispensabile contro il perpetuarsi delle pulsioni distruttive che ricorrono nella Storia. Ma anche per comprendere la nuova Berlino, la Berlino di oggi, «spinta da forze che ignora«, in preda a una evidente crisi di identità. E, infine, per riflettere sul senso dei confini, quando altri muri, in altri Paesi, si alzano e dividono, al cospetto della massa di turisti «inconsistenti» che da un lato sono a favore dell’abbattimento dei muri e dall’altro appoggiano (anche inconsapevolmente) la nascita di nuovi mondi totalitari.
I PREZIOSI contributi sonori, così come le immagini d’archivio, si spiegano quasi come suggestioni, schivando il rischio dell’esposizione didattica, lavorando sempre sotto traccia, andando a costruire un tessuto evocativo, personale, in continuo movimento, come i personaggi che lo abitano e gli danno vita. Checkpoint Berlin è un film-esperienza. Trasversale. Misterioso. Sfuggente. E un film-movimento. Dove tutto è procedere, andare e venire. L’architettura di uno spazio e di un tempo «altro», popolato di fantasmi e di false piste, di «sliding doors» e di cuori che battono all’unisono inseguendo una speranza o un sogno, talvolta perduto, altre volte realizzato. Come la luce in fondo a una galleria. Una possibilità.

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