VISIONI

La scoperta del reale nel divenire infinito

Da Rossellini a Marco Bellocchio, il mondo «ricreato» sul grande schermo
LUIGI ABIUSIITALIA

Mi chiedo quanto sia necessario scrivere adesso di cinema o di letteratura, o musica; o se invece, a pensarci bene, non ci sia momento migliore che questo in cui tutte le più fantasiose distopie novecentesche, da Orwell a Soderbergh, ecc.. (ma ci metterei anche l’Hilbig purulento e stellare di Scorticatoio, uscito di recente), sembrano abbattersi sulle città colossali, disertate, esposte a onde anomale di calore, di sole a picco sui palazzi, o gelo all’improvviso e tempesta, ad alimentare se mai una fortuita pagina di cinema, una sua ierofania a reti unificate, nell’ora in cui di solito vige il quiz: il papa in paramenti, alle prese con i riti apotropaici, poi sfinito, zittito al cospetto di tutta una semantica e una fisiologia del vuoto, del silenzio in fermentazione.
VUOTI, SCARTI, distanze imposte, da cui non può che emergere una latente, inveterata forza vitale, a ricomporre e celebrare il mondo purché esso venga scoperto, scritto, inscritto nella pratica figurativa, poetica, mitopoietica già rivendicata da Sklovskij e poi puntualizzata da Pasolini. Che è il concetto cardine su cui ruota il libro di Roberto De Gaetano, Cinema italiano: forme, identità, stili di vita (Pellegrini editore), partendo dalla scoperta, invenzione del reale (invenzione di ciò che già esiste) da parte del neorealismo, visto allora soprattutto su un piano di rivoluzione formale anziché di mera congruenza contenutistica, narrativa. Così l’officiare papale (era il 27 marzo), di per sé così trito, stantio, perpetuato di volta in volta tra l’indifferenza delle folle, l’automatismo dei gesti (quello che Sklovskij denunciava come una riduzione del mondo a numero sterile, ripetuto; a gestica distratta, risaputa, cioè priva di sapere), è parso espressivo come mai prima, sottolineato, proprio inventato dalla regia televisiva, mostrato in relazione con il rimbombo del silenzio e degli spazi fattisi fissità germinante nel piano, sullo sfondo sfocato, poi fuoricampo come in una sequenza di Tsai Ming Liang.
ECCO, IL CINEMA contemporaneo: uno degli aspetti straordinari del libro di De Gaetano è di considerare il neorealismo all’insegna di una «messa in questione dell’ordine della realtà» (non di mera registrazione dello scorcio) che confluisce negli anni, si evolve, si attualizza in Antonioni, Pasolini, almeno fino a Bellocchio, Martone, Marcello, ma ovviamente anche al di là del contesto italiano, arrivando appunto a Tsai Ming-liang e al cinema orientale, a cui si possono aggiungere, al di là delle soglie poste dal libro e anzi proprio grazie all'argomentazione di De Gaetano, i fratelli Safdie già dal tempo di Heaven Knows What ma in genere tutti quegli autori che vibrano il colpo, il loro gesto registico in rapporto, paradossalmente, a uno spossessamento vibrante dell’immagine, un «laissez-faire», un lasciar fluire le forze della vita in favore di camera, a vantaggio della forma che si mostra esemplarmente, mostra il suo farsi, disfarsi nel piano sequenza finale di Professione reporter.
E QUI, MENTRE si occupa di questa messa in discussione del reale (che non può che essere poiesi), De Gaetano richiama la tradizione italiana tesa tra pensiero e vertigine – quasi mesmerismo, quello, mi viene da dire, del finale dello Zio Boonmee che si ricorda delle vite precedenti, specie di corrispettivo contemporaneo di quel piano sequenza antonioniano che aveva incarnato, anzi oggettivato una volta per tutte, lo spirito, il fenomeno, lo spirito-in-fenomeno del Novecento, a cui aggiungerei l’inizio di Diamanti grezzi dei Safdie, transito, movimento di macchina, movimento della forma «in fieri», da un opale a un colon: Vico, Giordano Bruno, Leopardi, citando anche un libro fondamentale quale Pensiero vivente di Roberto Esposito.
Ed è quel «mentre» del pensiero di De Gaetano un punto focale di questo libro: la sua scrittura mentre spiega concetti, soprattutto teorie che allora non si spiegano più, ma se mai si dispiegano come semoventi; la scrittura vibra la sua forma, la specificità, come dire, geografica, spaziale, del suo essere, del suo divenire, proprio come l’assunto, l’immagine cinematografica che diviene pur nella sua definizione. È una questione di sintassi oltre che di lessico: la forma specifica messa in atto da quello che è senz’altro uno dei maggiori teorici del cinema in circolazione; la sintassi, la concatenazione dei sintagmi, che fa, sostanzia i filosofemi (che non possono che esistere per via sintattica), i sillogismi, le aporie, soprattutto nella seconda parte del libro, in cui si estendono gli intervalli, gli scarti, i vuoti estatici, dialettici, erratici di certo cinema, e le distanze che scandiscono il cinema neorealista. Delle quali non può sfuggire il portato attualizzante, politico, se si pensa alla condizione d’emergenza odierna, un distanziamento tra i soggetti (spinti dalla stessa originaria forza vitale verso l’altro da sé, ora visto, trasfigurato sugli schermi) che funziona da attrazione, collante di un’intensità intrinseca del mondo, come la distanza esistente tra Carmela e il soldato americano in Paisà (che diviene simpatia), o quella tra i due coniugi di Viaggio in Italia (tramutatasi, rivelatasi amore alla fine).
È LA S-COMPOSIZIONE del reale su base intensiva (secondo Bazin) o, usando la definizione di Pasolini, l’«univocità del reale» mostrato, costruito dal cinema, dall’opera, in cui germina la materia espressiva, luce, suono, a prescindere dalla distinzione di soggetto e oggetto: congerie di lassi, varchi, tempi morenti che scandiscono soggettive indirette libere: poesia.
Qui il reale non è qualcosa di già dato, di già visto, ma si s-fa nel suo mentre, sulla scorta del farsi della forma, delle immagini, di superfici che vedono esse stesse (un occhio diffuso sulla pelle del film, la pellicola); guardano, riguardano ciò che sta loro di fronte annettendolo: il mondo con il suo brulicare d’anime, d’occhi.
ECCO ALLORA l’impossibilità di fare a meno delle immagini, o almeno di quelle d’ascendenza neorealista, perché ci riguardano strettamente – quelle del papa solingo, incastonato nella fissità del silenzio; le tante apocalissi cinematografiche; la rigenerazione dell’amore: ci accorpano al loro piano, alla loro verità superiore, «non verosimile», ci danno senso scrivendoci, inventandoci, inscrivendoci nella vicenda, immagine, infaticabile del mondo.

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