EUROPA

Kosovo, sull’epidemia cade il governo Kurti

BALCANI/CORONAVIRUS
ALESSANDRA BRIGANTIkosovo

I guai, si sa, non arrivano mai da soli. A questa regola non fa eccezione il Kosovo dove nel pieno dell’emergenza coronavirus, il governo guidato da Albin Kurti è caduto a soli 51 giorni dal suo insediamento. Già nelle settimane precedenti erano apparsi insanabili i contrasti tra i due partner di governo, la Lega Democratica del Kosovo di Isa Mustafa, e il movimento Vetevendosjie del premier kosovaro. A ciò si è aggiunto uno scontro senza precedenti tra il presidente della Repubblica Hashim Thaqi - soprannominato "Il Serpente" e su cui pende il capo d’accusa di crimini di guera - e il capo del governo e suo acerrimo nemico, Kurti. Tatticismi politici consueti a queste latitudini, ma che stavolta hanno destato un’ondata di indignazione in tutto il Paese.
Così mentre dai balconi di tutto il mondo ci si stringe nella lotta contro la pandemia, da quelli di Pristina si levano le proteste contro una classe dirigente che per difendere i suoi interessi non si arresta neanche di fronte a una vera e propria emergenza sociale. Facciamo un passo indietro. I primi due casi di contagio da coronavirus vengono registrati in Kosovo il 13 marzo. Il governo Kurti adotta delle misure di contenimento dell’emergenza in linea con quanto fatto da altri Stati. La presidenza della Repubblica chiede però di proclamare lo stato di emergenza che implica tra l’altro il trasferimento di alcuni poteri esecutivi al Consiglio nazionale di sicurezza, presieduto dal capo dello Stato. La proposta, rigettata dal premier, viene in seguito rilanciata dal ministro degli Interni Agim Veljiu, esponente dell’Ldk. Il giorno dopo Kurti lo rimuove dall’incarico, ritenendo «intollerabile» la sua posizione contraria a quella dell’esecutivo.
Dopo è stato tutto un susseguirsi di minacce e appelli alla responsabilità fino all’epilogo: la sfiducia contro il governo votata oltre che dall’Ldk, anche dal fronte delle opposizioni.
Fin qui il casus belli. La posta in gioco però va bel oltre la gestione dell’emergenza coronavirus. I rapporti tra i due partner di governo, Ldk e Vv, si erano incrinati a causa del rifiuto opposto da Kurti alla richiesta pressante di Washington di abolire immediatamente e senza condizioni i dazi del 100% sulle merci serbe introdotte da Pristina più di un anno fa. Il premier aveva optato per un approccio graduale e condizionato all’eventuale risposta costruttiva di Belgrado. E così nonostante le critiche e gli avvertimenti di Washington, Kurti aveva mantenuto fede a quanto annunciato, disponendo l’abolizione dei dazi sulle materie prime importate dalla Serbia che, va ricordato, costituiscono comunque l’80% delle esportazioni serbe nell’ex provincia.
Un atto di ribellione verso Washington più che fondato. Kurti sa bene che il prossimo passo dopo la rimozione dei dazi è la firma dell’accordo di scambio negoziato in segreto da Thaqi e dal presidente serbo Aleksandar Vucic, e fortemente voluto dall’amministrazione Trump. Ed è proprio lì che Kurti non voleva arrivare. Non è un mistero infatti che nell’accordo vengano ridisegnati i confini del Kosovo e della Serbia su base etnica, un precedente pericoloso che potrebbe provocare una serie di rivendicazioni nazionaliste in tutta la regione.
È lo stesso Kurti a denunciare in Parlamento quella che definisce una «congiura politica». Una congiura che vede coinvolta in primis la Casa Bianca, decisa a mettere una parola fine all’eterno scontro tra Kosovo e Serbia prima delle elezioni in America, e poi le sue propaggini in Kosovo, ossia il «Serpente», il presidente Thaqi e il suo ormai ex alleato di governo, Mustafa. E forse per la prima volta dopo vent’anni il re è finalmente nudo.

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