Sassofonista, compositore, decano dei musicisti afropolitani o come preferiva dire lui «negropolitani», alludendo alla diaspora dei "pancia vuota" che hanno cambiato per sempre il volto anche sonoro di Parigi a partire dal secondo dopoguerra. Makossa Man, Papy Groove, forse il «musicista africano» - espressione che se diventava una parola sola lo faceva arrabbiare - più popolare di sempre, ok dopo Miriam Makeba forse, grazie a un attimo trascorso all’inizio degli anni settanta, in vetta alle classifiche americane.
MANU DIBANGO È MORTO IERI a Parigi. Aveva 86 anni e a togliergli il respiro è stata l’infezione da Covid-19 che gli avevano diagnosticato in ospedale nei giorni scorsi. Un insensato contrappasso per quanto fiato ha spinto tra l’ancia e il bocchino del suo sax, preferibilmente tenore, un vecchio e molto parigino Selmer fedele all’iconografia classica del jazz, cui nel tempo si sono aggiunti esclusivi intarsi d’ebano. Ha giocato a nascondino con gli stereotipi anche se il «leone» alla fine ha avuto la meglio nei titoli e nelle antologie dedicate alla sua musica.
Un artista che non ammette confronti, tanto personale era il suo modo di porsi. Né possiamo dire che lasci un solo erede dal punto di vista musicale, non perché ultimo custode di un’antica forma tradizionale ma la contrario in quanto precoce esploratore di un’idea di musica plurale - questa sì, a rischio di estinzione - che ha nel presente il suo dna e nelle etichette tipo world music la sua prigione. Partito una prima volta da Douala, Camerun, dove era nato nel 1933, che avrà avuto 15 anni. In valigia «Tre chili di caffè»” che nell’Europa del dopoguerra valgono un mese di pensione e torneranno anche utili per il titolo dell’autobiografia che scriverà con Danielle Rouard 40 anni dopo.
NEL 1960 A BRUXELLES incontra Joseph Kabasele, l’uomo che ha appena fatto ballare tutto il Congo con Independance cha cha. Gli pavimenterà una strada di ritorno verso l’Africa fatta di sfarzi, incarichi ufficiali, intrighi di palazzo, esaltazioni e improvvisi collassi, da cui è sempre ripartito. Dalla Costa d’Avorio al neonato Zaire e al suo Camerun ingrato, un’anda e rianda forsennato con l’Europa dal quale troverà parzialmente pace solo nei primi anni 80, stabilendosi a Parigi, al centro esatto di una scena più che effervescente.
Nel mezzo, quel passare repentino dal trionfo all’Olympia al vedere l’America dal finestrino di una limousine grazie a Soul Makossa, il suo marchio di fabbrica a dispetto della quantità di musica all’altezza e anche migliore che ha realizzato in seguito. Quel brano entrò in una scia di emozioni nuyoricane e derive afro con tempismo inaspettato.
LA HARLEM ISPANICA e quella nera depongono le lame se in pista c’è mako-mako-ssa. «Che importa se non capiscono le parole? Evoca loro l’Africa delle città (…). Al paese mi considerano un europeo e l’Europa mi tratta da americano. Per lo zio Sam io sono un africano che fa musica africana. è una musica che non esiste di per se stessa». Il brano - croce, delizia e stemma indelebile - sarà costretto a declinarlo in reggae makossa, funky makossa, electro makossa e via abbinando. Unico denominatore comune un ritmo tradizionale del Camerun che per sua stessa ammissione è citato a malapena di striscio. Anche la disco music, di cui il brano è considerato esempio monumentale, è ben altro. E d’altro canto gli African Jazz da cui era partito, tutto suonavano tranne che jazz in senso compiuto.
Lui che il jazz invece lo conosce (è anche un discreto vibrafonista), sa anche come usarlo per tornare a un’Africa delle diversità politiche e poliritmiche che balla sotto lo stesso cielo. Il jazz non è un mezzo - come forse la frequentazione di Nino Ferrer negli anni 60 e le collaborazioni electro con Bill Laswell vent’anni dopo - ma un modo d’intendere e di creare musica. È allergico alla ripetizione, che si parli di antenati o dell’arrangiamento di un brano. Anche se si tratta di Soul Makossa. «Il successo sarà memorabile. Guarda cosa mi doveva capitare…».
CI MANCHERÀ ANCHE QUELLA sua risata che definire contagiosa ora rischia di suonare male. Che esplodesse nei dintorni di una conversazione o nella sua musica, elevata al rango di strumento musicale, non ha mai lasciato indifferenti e rimarrà una costante anche quando gli occhiali da saldatore del terzo millennio prendono il posto dei ray-ban anni ’70, mentre il suono diventa elettrico, poi elettronico, poi di nuovo jazz e rumba, tutto -makossa ovviamente.
Guascone come un personaggio di Alain Mabanckou, ma abbastanza destabilizzante da incarnare le ombre di un eroe post-esotista, non si farà mancare una certa dose di impegno civile ai tempi di Tam tam pour l’Ethiopie, cui segue la disillusa certezza, anticipatrice delle future critiche all’industria dei LiveAid, che senza cambiare musica nelle politiche globali i concerti servono a poco o a pochi.