VISIONI

«Fidelio», dal Terrore al tempo della Brexit

L’opera di Beethoven in scena alla Royal Opera House di Londra. Dirige Antonio Pappano
ANDREA PENNAgb/londra

Una libertà scomoda, la fine di una prigionia e di un regime le cui implicazioni liete nascondono anche verità problematiche; una vicenda umana e politica che dalle pagine del Terrore del 1794 emerge verso la nostra quotidianità. Riflessioni che possono sembrare lontane di mesi, vista l’attuale condizione di sospensione e paura, ma nascono dalla produzione di Fidelio di Beethoven, in scena alla Royal Opera House di Londra dal 1 marzo scorso. Antonio Pappano guida i complessi del Covent Garden nel contributo all’anniversario beethoveniano, in una produzione ideata dal regista Tobias Kratzer e dal suo team (Bettina Bartz, drammaturga, Rainer Sellmaier, scene e costumi, Michael Bauer, Michael Braun luci e video).
INTEGRANDO ai dialoghi parlati del libretto con una serie di passaggi da Grillparzer e dalla Morte di Danton di Buchner la regia si proponeva di sottolineare e arricchire di densità speculativa i contrasti sottesi dall’opera di Beethoven fra idee illuministe, violenza rivoluzionaria, guerre napoleoniche. Il primo atto era ambientato nella perfetta riproduzione di una prigione francese, forse il cortile della Conciergerie: gran tricolore sul portale, scena affollata da giacobini, capelli lunghi e abiti in disordine, felici di dileggiare Jaquino e terrorizzare Marzelline mentre la ghigliottina lavora a pieno ritmo. Come cassetti scorrevoli dalla parete scorrono fuori le stanze e l’ufficio di Rocco: lettini, schedari e scrittoi, gli ambienti in cui Rocco promette al giovane Fidelio sua figlia e accetta gli ordini criminali di Pizzarro. Negli stessi ambienti Marzelline spia Leonora-Fidelio, che canta la speranza di liberare lo sposo senza camicia, scoprendo il seno dalle fasce che lo comprimono e svelando il suo segreto.
La prima parte contestualizza dunque il retroterra storico-culturale e connota stilisticamente la forma del singspiel, il secondo atto si cambia in oratorio-parabola scenica: il coro in abiti scuri disposto a semicerchio intorno al macigno roccioso centrale cui il prigioniero Florestan è incatenato per un piede come un lacero Prometeo.
NIENTE TENEBRE, l’intera prigione è bagnata da luce gelida e i volti dei coristi sfilano sullo schermo gigante del fondale, testimoni assorti o pigri dell’agnizione di Leonora e dell’epilogo lieto, siglato dal colpo di pistola che disarma Pizarro, esploso però da Marzelline, assurta a complice coraggiosa. Dal coro sorge il ministro, la bandiera francese torna a cingere la coppia ritrovata, un simbolo di un’unità di valori illuministici e europei che ha infastidito non poco una parte del pubblico che alla fine ha contestato il team registico. Trionfatrice della serata è stata la norvegese Lisa Davidsen, consacrata ormai a livello internazionale: voce ampia, morbida, acuti fiammanti e mai gridati, una Leonora dal fraseggio partecipe e dalla presenza scenica efficace.
MOLTO ALTA, Davidsen staccava di un palmo Jonas Kaufmann, Florestan di esperienza, presenza e sensibilità sempre straordinarie, la voce appena affaticata (indisposizione annunciata, ha poi cancellato alcune recite). Ottimi il Rocco severo di Georg Zeppenfeld, la vivace coppia Amanda Forsythe e Robin Tristchlen, Marzelline e Jaquino. In costante lotta con l’intonazione il Pizarro di Simon Neal. Consensi pieni per Pappano, orchestra e coro (in forma smagliante): una lettura dal passo incalzante, giocato fra chiaroscuri e contrasti, ma attenta ai dettagli della trama orchestrale, mai soffocata da gigantismi nibelungici, anzi resa nitida e leggera specie nell’accompagnamento perfetto delle voci.

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