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Antonio Ligabue:corpo, estasi,pittura

Divano
ALBERTO OLIVETTIITALIA

Torno a riflettere sulla pittura di Antonio Ligabue (1899-1965). Mi propongo, in particolare, di prendere in considerazione alcuni aspetti che, riguardo agli esiti della sua pittura di animali, mi paiono rilevanti. Sembra a me, invece, che altro discorso e diverso andrà fatto per i paesaggi, come pure per i non frequenti ritratti da lui eseguiti. Una differenza di approccio critico, questa, che meno ha campo quando si valutino di Ligabue i numerosi autoritratti. La loro ‘poetica’, infatti, può bene dirsi contigua ed affine alla ispirazione dei quadri di animali e partecipare di una ‘dimensione’ che può opportunamente essere illuminata nel reciproco confronto. Mi provo allora ad esaminare la portata della modalità peculiare del suo dipingere animali. L’atto effettivo, dunque, di quel dipingere, da Ligabue espresso attraverso espedienti (smorfie, ruggiti, fischi, grugniti, balzi) con i quali egli viene collocando il suo corpo (tramite una gestualità che favorisce una esaltata concentrazione nervosa) entro i tragitti che vanno dalla sua mano alla tela, percorsi da lui determinati secondo una ritmica d’ordine delirante. Nella reiterazione mimetica e gestuale, egli trova la misura del tocco del pennello, i margini della figura che viene delineando, quasi scaturisse da una energia interna trasmessa dall’animale raffigurato. Essa così mette capo, mi pare giusto affermare, ad una sorta di equilibrio estatico. Intendo significare una sorta di montante possessione che rende Ligabue capace di istituire e poi comporre la sua opera di identificazione-raffigurazione e realizzarla, volta a volta e integralmente, in quei presenti, riconoscibili (astanti diresti nel lessico di Cesare Brandi) nibbio, mosca, pitone, volpe, tigre, gallo, gorilla dipinti. Dipinti: perché parlo, giustappunto, di un conseguito equilibrio estatico che Ligabue formula e registra nella cifra assoluta della pittura. Pittura: egli la realizza, la assolve una volta che giunge a compiutezza quel suo uscire da sé. Così lo spazio del quadro circoscrive l’àmbito che accoglie e consente a Ligabue di dar conto della sua speciale opera di dis-posizione, intendo dire un effettivo, complesso processo di dis-locazione del proprio corpo. Dico la comunione estatica, ovvero il pieno sé stesso che integralmente Ligabue trasmuta e trasferisce, in interiore congiunzione al nibbio, alla mosca, al pitone, alla volpe, alla tigre, al gallo, al gorilla. Quegli esercizi di preparazione e purificazione del corpo che dispongono all’«uscir fuori di sé», sono, secondo gli insegnamenti dei Padri e dagli autori scolastici, da perseguire, sappiamo, in eremìa, lontano dal mondo. Così essi aprono la via che conduce a Dio. Il romitaggio selvatico di Ligabue, vissuto tra le solitudini degli anfratti in riva del Po, è la lunga purificazione che non solo restituisce il suo corpo ad una animalità praticata, ma ne fa adeguato ricetto estatico, per comunione ed immedesimazione, del corpo animale. Come è attestato nella letteratura agiografica, le pratiche di mistica e quelle di iniziazione alla contemplazione e all’estasi, recano al corpo una cifra di santità che si evidenzia in virtù di diversi e molteplici aspetti, o segni. Un crisma di sacertà, un’aura che impone una distanza e che mantiene quel corpo esente da contatti impropri. Senza meno, una ripugnanza a toccarlo Ligabue induceva in chi lo incontrasse, repulsa spontanea che, per certo giustificata dalla sua sporcizia, lo poneva tuttavia in condizione affine a quello di un ‘santo’. Di Ligabue, nella sua corporalità altra, ci parla nel suo Toni Ligabue Cesare Zavattini: «Ululava/se dipingeva lupi/ruggiva se dipingeva leoni/ si arrotava il naso contro il muro/per averlo adunco/voleva essere aquila./ si appartò con gli animali. / Dicevano nel bosco c’è un uomo/che mangia topi. Domandava di essere lasciato solo/suppongo sprofondasse in osceni dolori./Dice una nota medica/dedito all’onanismo./Io stesso non gli stesi la mano/quando lo conobbi nel cinquantasei/dal naso gli colava del muco/da noi chiamato la michéla,/un grumo di saliva gialla/era sempre rappreso all’angolo della bocca./Studiavo il modo di salutarlo e non toccarlo./Lo lasciai sotto i portici/con un abbraccio mentale per farmi perdonare/il non abbraccio reale».

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