COMMENTO

La galera non è un regalo alla polizia

Stupefacenti
PATRIZIO GONNELLAITALIA/ROMA

I detenuti tossicodipendenti rappresentano un quarto della popolazione detenuta.
Quelli ristretti per avere violato la legge sugli stupefacenti sono a loro volta circa un terzo dei 61 mila reclusi nelle carceri italiane.
La custodia cautelare pesa anch’essa più o meno un terzo rispetto ai numeri globali della detenzione nel nostro Paese. Esiste un sotto-insieme di detenuti che è costituito da persone che hanno violato la legge sulle droghe e che hanno allo stesso tempo problemi di dipendenza. Lo spacciatore è, quindi, non di rado anche consumatore di sostanze. Non raramente si tratta di giovani che provengono da contesti marginali e che presentano anche disagi di tipo psichico.
L’Italia è il Paese del Consiglio d’Europa che ha tra i numeri più alti di condannati in via definitiva per reati di droga: circa dodici punti percentuali in più rispetto alla Spagna e alla Francia, oltre venti punti in più rispetto alla Germania. Questi numeri evidenziano un impatto repressivo della nostra legislazione (che va ricordato ancora porta i nomi di Gianfranco Fini e Carlo Giovanardi) che è già fin troppo sostanzioso e non richiede ulteriori smottamenti securitari. Non sembrano dunque giustificate le preoccupazioni e le proposte del ministro degli Interni Luciana Lamorgese, la quale ha anticipato che avrebbe predisposto una norma per superare l’attuale disposizione dell’art. 73 comma cinque della legge sulle droghe in modo da assicurare l’arresto immediato in tutti i casi di spaccio di droghe, anche se le quantità sono modiche. Non sappiamo ancora quale sarà la soluzione tecnica che verrà adottata per mandare in galera i micro-spacciatori. Di certo non potrà essere l’introduzione di automatismi nell’imposizione di una misura cautelare detentiva, in quanto essi sono già stati più di una volta ritenuti illegittimi da parte della Corte Costituzionale. Non sappiamo neanche se saranno previste distinzioni di trattamento penale per chi spaccia cannabis o droghe pesanti.
Chiunque da decenni si occupa di questi temi ben sa che la minaccia della galera e la risposta di Polizia costituiscono una politica oramai abusata di repressione criminale che nel tempo e nello spazio non ha prodotto risultati significativi, né in termini di lotta allo spaccio, né in termini di riduzione dei consumi giovanili (preoccupazione evidenziata dal Ministro nel suo intervento), né di lotta alla recidiva. Basterebbe sentire il parere di chi il carcere lo conosce, per rendersi conto che esso è un luogo patogeno, a sua volta foriero di nuove recidive. Il carcere, nella migliore delle ipotesi, serve solo a rassicurare, simbolicamente, l’opinione pubblica o al limite qualche sindacalista autonomo di Polizia.
Proprio in un contesto sindacale di Polizia pare che il ministro abbia rilevato «il fatto che arrestare, senza custodia in carcere, e il giorno dopo vedere nello stesso angolo di strada lo spacciatore preso il giorno prima, incide anche sulla demotivazione del personale di polizia che tanto si impegna su questo versante e vede la propria attività essere posta nel nulla quando il giorno dopo li ritroviamo nello stesso posto». Non mi pare questa una motivazione sufficiente per imprimere un’accelerazione nella macchina della repressione. La motivazione professionale delle forze dell’ordine va rispettata ma altrimenti assicurata. In Paesi come il Canada e gli Stati Uniti scelte di legalizzazione della cannabis sono state realizzate grazie al contributo fondamentale di investigatori ed esperti che hanno definito vecchia e inutile la war on drugs. Liberandoci dall’ossessione punitiva e dall’ideologia proibizionista, potrebbe essere possibile spostare risorse umane (giudiziarie e di polizia) ed economiche verso il contrasto di altri, ben più allarmanti, pericoli criminali (si pensi ai delitti delle mafie, ai crimini dell’odio, ai traffici di armi).
Un poliziotto non deve riscontrare soddisfazione personale nel vedere la persona da lui fermata andare in prigione. Deve viceversa sentirsi gratificato dall’essere universalmente considerato un funzionario pubblico non di parte che promuove e protegge i diritti di tutti. Ed è la politica che deve dargli questa nobile funzione.

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