VISIONI

Dal deserto all’altipiano, il viaggioche avvicina Occidente e Oriente

MASSIMO ZAMBONI
LUCA PAKAROVITALIA

Un viaggio per chiudere il cerchio, si potrebbe dire. Ma in fondo Massimo Zamboni ripesca e rinnova la sua storia di artista e di uomo ripercorrendo le strade che l’hanno condotto fino al presente, in un confronto sincero con il passato e il tempo, senza malinconie ma con una tensione più spirituale (maturità/saggezza o componente alternativa, punk dell’oggi?), con le parole e la musica che arricchiscono la visione del mondo. Dopo essere ritornato con il libro Nessuna voce dentro nella Berlino dove germogliarono i CCCP o aver omaggiato con lo spettacolo I Soviet + L’elettricità i cento anni della Rivoluzione Russa, ora è il momento della Mongolia.
IL PAESE che rappresenta uno stato dell’anima e che nel ’96 venne visitato da Zamboni con gli altri CSI e che impulsò l’ultimo (capo)lavoro della band in studio - straniante e cerebrale - Tabula Rasa Elettrificata. In quel viaggio in cui era presente anche la moglie scopre di voler diventare padre, due anni dopo nasce Caterina, sulla pelle ha la «macchia mongolica», un segno che caratterizzano i mongoli. Caterina a 18 anni decide di visitare la Mongolia. Con La Macchia Mongolica (Universal) Zamboni propone un’operazione in cui esplora e racconta attraverso vari linguaggi: disco, libro scritto a quattro mani con la figlia Caterina (Baldini e Castoldi) e un film diretto da Piergiorgio Casotti (nel ’96 Davide Ferrario aveva lì registrato parte del documentario Sul 45° parallelo). L’album contiene 13 tracce quasi totalmente strumentali e suonate con i sodali Cristiano Roversi e Simone Beneventi. Una colonna sonora di viaggio, dove fra le tracce sembrano apparire i luoghi che vanno dal deserto all’altopiano, penetrate dalle voci dei nativi (Ome Ewe).
CHITARRE RAREFATTE e strumenti della tradizione sembrano farci delineare gli animali, che siano cavalli (Shu) o cammelli (I cammelli di Bactriana), e tutte le suggestioni di un passaggio meditativo che Zamboni comprime ed espande, seguendo gli stati d’animo e l’orizzonte che gli si para davanti. Un minimalismo che prende corpo nell’unico brano cantato, Lunghe d’ombre, che con una nenia sintetizza (anche) la filosofia del punk: «Vivere comprende la rinuncia a conservare, vivere è un atto d’esclusione». Occidente e oriente sembrano meno distanti nella poetica di Zamboni, malgrado ne esibisca con riguardo i rispettivi incantesimi attraverso un’unica voce zeppa di paradossi.

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