VISIONI

Pensare il cinema tra memoria e utopia

I rapporti Israele-Palestina, i film su Rabin, progetti futuri e passati
SILVIA NUGARAisraele/italia/torino

Con una masterclass del regista israeliano Amos Gitai, il Museo Nazionale del Cinema di Torino ha inaugurato martedì sera un ciclo di incontri mensili con grandi autori e attori per celebrare i vent’anni del museo e la storia del cinema nella città sabauda. Il regista nativo di Haifa, ma per decenni esule a Parigi perché critico nei confronti della politica muscolare e della segregazione razziale nel proprio paese, arriva in Italia all’indomani del Giorno della Memoria delle vittime della Shoah e proprio nelle ore in cui Trump e Netanyahu alla Casa Bianca annunciano il piano del secolo per risolvere la crisi israelo-palestinese senza neppure invitare al tavolo delle trattative una rappresentanza palestinese. Per Trump, il piano «non piacerà ai palestinesi, ma porterà loro benefici» e non si capisce quali. Tra le altre cose, l’accordo conferma per Gerusalemme lo status di capitale di uno stato unicamente ebraico e prevede l’annessione a Israele della Valle del Giordano e di gran parte dei territori dove sorgono le colonie. La situazione è «grave e pericolosa» commenta il regista, da sempre capace di confrontarsi con la complessità del proprio paese attraverso un approccio che ha fatto della necessità di cogliere ogni possibilità dialettica per prospettive e punti di vista diversi un imperativo etico su cui basare il proprio lavoro artistico e politico. Gitai ha pagato il prezzo della sua postura critica e dialogante sin dagli inizi, da quando nel 1980 il suo documentario Bayit (Home) fu censurato dalla stessa emittente televisiva che lo aveva prodotto perché nel documentare la storia di una casa in ristrutturazione, di fatto raccontava la storia di quei palestinesi costretti a lasciare le proprie abitazioni nel 1948, e inoltre filmava gli operai palestinesi come lavoratori operosi e non come nemici mostruosi. Incontriamo Gitai in un albergo del centro città che sorge nel palazzo in cui abitò Antonio Gramsci, luogo interessante e sintomatico per un regista che ha fatto della memoria dei luoghi uno degli assi portanti del proprio lavoro.
Ha senso parlare ancora di speranza per un futuro giusto e pacifico nel suo paese?
Senza speranza si diventa immobili e nichilisti e non va bene. Nel mio film del 1982 Field Diary, chiedevo al sindaco di Nablus Bassam Shakaa, che era stato ferito in un attentato, se si sentiva ottimista o pessimista e lui mi rispose: non possiamo permetterci di essere pessimisti. Dobbiamo sperare ma dobbiamo anche continuare a lavorare per rendere possibile un futuro migliore. Per questo ho realizzato Letter to a Friend in Gaza (2018) che tenta di tenere vivo il dialogo tra israeliani e palestinesi, tra passato e presente.
Il potere che cancella il diritto di esistere dell’altro si serve della semplificazione e dell’oblio. Forse uno dei più importanti atti di resistenza che l’arte può compiere è proprio interrogare i processi di costruzione della memoria o dell’oblio?
Le tracce del passato servono a costruire un’idea del futuro, costruiscono conoscenza. Oggi, complici i "social" media, abbiamo molte informazioni e poca conoscenza: la comunicazione e il cinema sono sempre più formattati, manca il pensiero, la dimensione utopica. Perché manca lo studio, la teoria e il senso della storia. Per fare cinema, è necessario possedere alcune competenze tecniche ma quelle si possono acquisire in poco tempo, quel che serve davvero sono strumenti di pensiero, conoscenze di filosofia, economia e storia che permettano un rapporto con la realtà capace poi di ispirare un linguaggio sempre nuovo e adatto alla situazione che si vuole raccontare. Quanto al rapporto con la memoria, non posso non pensare che nella sintassi ebraica, il presente non ha una durata come invece accade in inglese con il present continuous, non c’è durata: il presente è sempre già passato, è una soluzione di continuità tra la memoria e l’utopia. La struttura dialettica di questa lingua non prevede la perfezione ma solo la contraddizione e un rapporto dialettico tra il passato e il futuro, tra la storia e l’utopia. Questo è il mio cinema anche se non pretendo certo di cambiare la realtà che mi circonda. Purtroppo, l’arte e la cultura si sono spesso dimostrate impotenti di fronte ai demoni della storia ma non per questo si deve rinunciare a fare arte.
Nel 1993, lei ha girato in Italia «In the Name of the Duce» durante gli ultimi due giorni di campagna elettorale per il sindaco di Napoli, riuscendo anche a intervistare l’allora candidata Alessandra Mussolini. Ancora oggi il fantasma del fascismo continua ad aggirarsi in Italia e altrove, perché?
Perché non sono stati fatti i conti con il passato e perché non si è creata una cultura capace di fare tesoro della conoscenza storica, per esempio, inserendo Gramsci nei programmi scolastici. Se fossi italiano farei volentieri un film sul luogo in cui ci troviamo e il suo rapporto con la memoria di Gramsci… Però anche in Germania, dove i conti con il passato sono stati fatti, la violenza razzista esiste ancora perché la memoria è un processo, non si può mai smettere di ricostruirla e di riattivarla.
All’indomani dell’assassinio di Yitzhak Rabin, lei ha dedicato a quel tragico evento il film «The Arena of Murder» (1996) che rende anche formalmente l’idea dello smarrimento intimo e politico. A vent’anni di distanza, ha realizzato «Rabin. The Last Day» (2015). Per quale ragione e con quale stato d’animo è tornato su quello spartiacque nella vita di Israele?
La questione è sempre il rapporto tra memoria e contemporaneità. Il primo film l’ho realizzato per esprimere il senso di caos in cui era piombato il paese, poi ho continuato a sentire il desiderio di lavorare su Rabin osservando Netanyahu nel corso degli anni. Da protocollo, il primo ministro israeliano in carica si deve recare ogni anno sulla tomba di Rabin il 4 novembre, in occasione della ricorrenza dell’assassinio. Quelli erano gli unici momenti in cui Netanyahu mi sembrava fragile, meno arrogante del solito. È come se l’unico vero oppositore del potere fosse un uomo morto. Ho voluto raccontare come la memoria di Rabin sia ancora viva e contribuire ad alimentarla. Tutti i materiali d’archivio che ho accumulato nella realizzazione di quel film sono stati depositati alla Biblioteca nazionale di Francia e il prossimo 24 settembre a Parigi ci sarà una grande mostra di materiali inediti tratti dal mio archivio, con performance in ottobre a Parigi e poi al Barbican Centre di Londra.
Sta lavorando a un nuovo progetto?
Sì, attualmente il mio prossimo film è in fase di post-produzione. Si intitolerà Leila in Haifa. Leila è un nome proprio femminile ma in arabo significa «notte». Il film sarà girato all’interno di un locale notturno di Haifa, la città da cui provengo e che amo, una sorta di microcosmo, di osservatorio ai piedi del monte Carmelo. Spesso nei miei film parto da un microcosmo per raccontare tutto un paese o un fenomeno sociale. Haifa è l’unica città in cui c’è una relazione ragionevole tra arabi ed ebrei, israeliani e palestinesi. La convivenza è nel suo Dna: durante il mandato britannico era governata da tre sindaci - britannico, ebreo e arabo - e le decisioni erano frutto di una negoziazione. Non è eccitante come Tel Aviv, non è conflittuale e spirituale come Gerusalemme, vive una quotidianità ragionevole e pacifica. I suoi abitanti sono molto concentrati sul proprio piccolo microcosmo, vivono più lentamente, come in un rifugio. Racconterò la storia di tre donne che ad Haifa trovano un riparo dal dominio maschile. Il bar sarà quel rifugio per loro come per tante altre persone di varie provenienze, religioni e sessualità: gay, etero, travestiti, alle prese con l’amore e l’odio, come capita a tutti gli esseri umani. Sarà una sorta di commedia umana ma senza alcuna rappresentazione angelica di chi siamo.

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