ELEZIONI REGIONALI

Ma le fratture sociali rimangono

Soccorso rosso
PIER GIORGIO ARDENIITALIA/emilia romagna

Salvini è stato fermato grazie al sussulto democratico dell’antico cuore rosso che, chiamato all’appello e risvegliato dalle sardine, si è recato alle urne.
E per dire «no pasaran». Ma attenzione, non è tanto Salvini ad avere perso, quanto il centro-sinistra ad avere stravinto, rovesciando ogni pronostico. Stefano Bonaccini, governatore uscente, raccoglie quasi un milione e 200 mila voti, contro il milione e passa di Lucia Borgonzoni, ottenendo un risultato di poco inferiore (16 mila voti) a quel clamoroso en-plein delle europee del 2014 e «riportando a casa» più di 300 mila voti che erano stati persi il 26 maggio scorso. La coalizione di centro-destra, da parte sua, guadagna appena 17 mila voti, che non le sono però sufficienti per conquistare il primato regionale. L’assalto leghista al fortino rosso, pertanto, è stato respinto.
Il Partito democratico ne esce tonificato, anche se è il governatore ad attrarre più voti delle liste che lo sostenevano. Se è vero, infatti, che la Lista Bonaccini - pensata per attrarre i voti di chi non voleva dichiararsi esplicitamente a favore del Pd - porta a casa un 5.8% (e le altre quattro liste prendono il 7,6%), è pur vero che il Pd racimola un dignitosissimo 34,7% dei voti, di cui ora può andare giustamente fiero. Certo, è stato il richiamo «ancestrale» a difesa dei valori di un modello che ha contato, ma tant’è, la chiamata all’appello ha funzionato.
Tutto è bene quel che finisce bene, dunque? Se l’Emilia Romagna, nel suo complesso, torna ad essere “rossa” è anche vero che è alla distribuzione territoriale del voto e tra i ceti che ora si dovrà prestare attenzione, se il Pd vorrà riconquistare appieno il suo «blocco sociale», per guardare oltre i confini regionali. A ben guardare, infatti, vi sono fratture che sono rimaste e reclamano una risposta: il divario centro/periferia, lo iato tra ceti urbani, suburbani e rurali. E c’è una polarizzazione che resta la cifra di questa Italia politica.
Nei comuni con meno di 5000 abitanti, ad esempio, il centro-destra è maggioritario (con una media vicina al 55%), come in quelli fino a 15 mila abitanti (con una media del 45%), mentre in quelli sopra i 30 mila abitanti è il Pd a prevalere, largamente. La Lega appare molto forte a Piacenza e Parma, in provincia, nei piccoli comuni appenninici e della pianura lungo il Po. Il centro-sinistra, da parte sua, raccoglie quasi il 60% dei voti lungo la via Emilia, da Reggio fino a Rimini – nelle realtà urbane e peri-urbane. Il M5S, infine, sparisce nei comuni appenninici e in quelli più occidentali, mentre raccoglie appena qualcosa nelle realtà peri-urbane.
Esiste quindi una frattura territoriale che appare evidente non solo nelle percentuali ma anche nell’affluenza, maggiore nei centri e minore nelle periferie - ed è a questa che il centro-sinistra dovrà fare attenzione se vorrà trarre una lezione rispetto alle sue prossime scelte politiche. I ceti urbani e suburbani meno protetti sono dunque «tornati all’ovile» sotto l’ala protettrice del centro-sinistra, evidentemente rifiutando il richiamo populista sovranista e securitario di Salvini. E se, in questo, è stato il liquefarsi della proposta 5 Stelle a favorire il ricollocamento a sinistra, non di meno vi sono fasce sociali - giovani e meno giovani, urbane, precarie - che oggi reclamano attenzione. I ceti urbani progressisti hanno trainato una riscossa sociale che - al di là dell’apparente «buonismo» del richiamo delle sardine - oggi esprime bisogni di rappresentanza e di proposta di cui un rinnovato centro-sinistra dovrà farsi carico. Guai se il Pd interpretasse questa sua riconquistata fiducia come un mandato elitario, delle realtà urbane più «avanzate» e «moderne» contro i «lasciati indietro». Ciò che il voto esprime è che questo non è certo un retour à la normale. L’arrembaggio salviniano ha permesso di sgombrare il campo dall’equivoco di un populismo «né di destra né di sinistra»: il populismo, che fa leva sulla chiusura identitaria e anti-multi-culturale, è autoritario, e quindi di destra. Solo una proposta «di sinistra» può essere una risposta. I ceti periferici hanno trovato una risposta, ancorché illusoria, nel populismo leghista mentre quelli urbani e suburbani, soprattutto i meno protetti, hanno dato ancora debole sostegno ai 5 Stelle o non sono andati a votare, disillusi dalla chiamata populista «egalitaria» dei pentastellati. Larghe fasce sul territorio non si sono espresse, non trovando evidentemente rappresentanza. E le fratture sono ancora lì: ora che il fortino è stato difeso, che si aprano i ponti levatoi, che si favoriscano quelle politiche d’inclusione che avevano fatto forte il modello emiliano d’un tempo. L’occasione è qui e ora. Prima che la cavalcata salviniana riprenda fiato e dai monti scenda nelle città.

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