CULTURA

Frantumate famiglie novecentesche

«LA CASA MANGIA LE PAROLE», DI LEONARDO G. LUCCONE
GIACOMO GIOSSIITALIA

Dopo anni di critiche, spesso pretestuose o prive di sostanza quando non illazioni, attorno a cosa sia e se possa esistere un grande romanzo italiano come forma precisa, costituita sia nella sua accezione originale sia nella sua capacità di prendere spunto dal corrispettivo Grande Romanzo Americano, sono comparsi sulla scena letteraria italiana negli ultimi mesi alcuni libri che per la prima volta sembrano delinearne un profilo concreto e visibile.
PERLOMENO opere - come Il colibrì di Sandro Veronesi, Lealtà di Letizia Pezzali o anche I fratelli Michelangelo di Vanni Santoni - sembrano poter far scorgere un orizzonte, una via d’uscita letteraria e non solo strettamente narrativa. Tra loro spicca l’esordio di Leonardo G. Luccone con La casa mangia le parole (Ponte alle Grazie, pp. 528, euro 18). «Spiccare» è probabilmente il termine che meno definisce questo primo sforzo romanzesco di Luccone perché la forza del suo testo è proprio nella misura e certosina pazienza con cui sa trasformare la materia narrativa in storia letteraria, costruendo anche in un’epoca contemporanea una struttura dei personaggi solida e seduttiva.
Luccone riprende i temi di un Novecento squassato ormai nella memoria di interpretazioni e reinterpretazioni e lo rimette a lucido proponendo al lettore i suoi migliori stilemi: la famiglia con le sue contraddizioni e deformanti oscurità, il matrimonio quale campione della crisi esistenziale di una coppia di mezza età, l’amore figliale - qui segnato da una malattia che determina relazioni e umori - e infine una tragica rivelazione che l’autore gestisce con magistrale accuratezza al limite del genere, quasi sulla soglia per poi offrire spazio a un realismo emotivo e commovente.
La casa mangia le parole è dunque un esordio per certi versi bizzarro perché si avvale principalmente di una straordinaria consapevolezza di misura e cura che determinano il valore di un romanzo che sembra cogliere il contemporaneo sfidandolo, senza soccombervi sotto macerie di artefatte soluzioni.
Si sbaglia se si pensa che Leonardo Luccone possa avere semplicemente costruito a tavolino il romanzo perché la qualità della sua struttura va ben al di là di quella «artigianale» di chi per mestiere come lui si occupa e cura i libri degli altri, certamente conta quel tipo di capacità, ma ciò che definisce al meglio la struttura in questo caso non è una banale costruzione (anche se banale non lo è mai quando questa si rivela efficace), bensì l’emergere di una voce inedita e originale.
IL ROMANZO scorre rapido tra le mani e sotto gli occhi, merito di una scrittura in grado di assecondare la curiosità del lettore, ma anche di accompagnarlo non per forza facilitandogli il percorso, ma illuminandolo, rendendolo così ricco e imprevedibile. Luccone evita stucchevoli soluzioni e lavora invece meticolosamente strutturando un corpo che si poggi su dialoghi ben scritti tanto da diventare una vera e propria spina dorsale narrativa.
L’elemento della famiglia, come quello del matrimonio, in generale divengono grimaldello sia per sviluppare una storia originalissima sia per affrontare il medesimo argomento finalmente abbandonandone gli stereotipi. Un raffinato gioco di ombre in cui la struttura, il genere, il tema stesso da strumentali si fanno effettiva sostanza letteraria. Luccone con La casa mangia le parole si definisce come autore con una voce propria, preludio migliore non si poteva prevedere.

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