INTERNAZIONALE

Sulla Libia decidono lo zar e il sultano. L’Italia si è insabbiata

L'intervento di garanzia dell’Ue avrebbe un senso se Bruxelles avesse giocato un ruolo non marginale. Ma la realtà è un’altra
ANDREA COLOMBOlibia/turchia/russia

Nella migliore delle ipotesi si tratta di liturgia, nella peggiore di un procedere a tentoni nel buio. Nella possibilità che il vertice tra governo, maggioranza e opposizione sulla Libia serva a qualcosa non ci crede nessuno. Convocato la settimana scorsa con rullar di tamburi, e poi rinviato si è infine svolto ieri sera, alla vigilia dell'intervento di oggi del ministro degli Esteri Di Maio in Parlamento e dell'informativa del responsabile della Difesa Guerini di fronte alle commissioni, essenzialmente perché «ormai lo si era detto».
A palazzo Chigi i capigruppo c'erano tutti ma, tanto più con elezioni fondamentali alle porte, è inevitabile che la maggioranza insista sull'immaginario ruolo centralissimo che l'Italia starebbe svolgendo e che l'opposizione veda invece il bicchiere solo vuoto. Ed esprima, come si è premurato di fare in anticipo Berlusconi, «preoccupazione per l'inettitudine del governo».
Il premier contava di presentarsi all'appuntamento con qualche punto fermo in più da presentare ai partiti. Difficile invece fare il punto sulla situazione nell'incertezza che impera sovrana, con Haftar che si è preso 48 ore per decidere, i suoi generali che parlano apertamente della necessità di «annientare le milizie di Tripoli» e il sultano Erdogan che minaccia di infliggere allo stesso Haftar «una dura lezione». Di sicuro c'è solo la paura, confermata dalle parole della ministra degli Interni Lamorgese che «possano esserci flussi consistenti di immigrati in seguito alla destabilizzazione in Libia». Tra le voci che si rincorrono, non solo a Roma ma nelle capitali di tutta Europa, c'è anche una ripresa dell'operazione Sophia, che però rischia a propria volta di indirizzare solo verso l'Italia quei flussi che in questo momento la maggioranza teme molto più dell'opposizione.
L'INCERTEZZA, che proseguirà sino alla Conferenza di Berlino di domenica prossima e forse ben oltre, rende impossibile dire parole chiare anche sulla vera posta in gioco: l'aumento del contingente italiano, dai 300 soldati attualmente in campo sino a mille. Nel quadro di una forza di interposizione europea, promossa al coperto di una risoluzione dell'Onu, della quale farebbero parte anche truppe francesi, spagnole e forse tedesche ma con l'Italia alla guida.
Che l'opzione sia possibile, dopo le reticenze iniziali, ieri lo ha ammesso senza perifrasi anche Conte: «Non è affatto esclusa la possibilità di inviare altri militari in territorio libico. Ma non manderemo uno solo dei nostri ragazzi se non in un contesto di sicurezza e con un mandato chiaro». Conte comunque è ottimista: «Il fatto che Haftar non abbia firmato non deve distrarci. L'importante è che ci sia un cessate il fuoco sostanziale». Di Maio, pur senza nominare le truppe italiane, conferma: «Bisogna schierare forze europee, sotto l'ombrello di Ue e Nato, per garantire conclusioni diplomatiche. Non ci schiereremo mai con una delle due parti in lotta».
IL PUNTO È che quelle «condizioni di sicurezza», per Conte prerequisito essenziale per una missione italiana sono e resteranno a dir poco aleatorie. L'intervento dell’Unione europea avrebbe un senso se Bruxelles e le capitali europee avessero giocato un ruolo non marginale, ma nonostante le fragorose affermazioni di Di Maio la realtà è opposta. La trattativa sulla Libia è cosa che riguarda la Russia e la Turchia, con la partecipazione diplomatica della sola Germania, consultata ieri immediatamente dopo il quasi strappo del generale Haftar.
Le truppe europee avrebbero quindi la missione di garantire il rispetto delle condizioni fissate dallo zar e dal sultano ed è una situazione piuttosto anomala.
L'Italia, inoltre, è già presente con il contingente estero attualmente più forte in territorio libico. La sua scarsa rilevanza non dipende dalla mancanza di una forza armata alle spalle. È in parte conseguenza del disastro del 2011, di quella missione per l'Italia fortemente voluta dal presidente Napolitano ma subìta e condivisa, sia pure a bocca storta, dall'allora premier Berlusconi e in parte prodotto dello schieramento sino a pochissimo tempo fa nettissimo a favore di Serraj. In queste condizioni, decidere unitariamente su un massiccio invio di truppe rasenta l'impossibilità.

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